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Che tipo di solidarietà con la Palestina? Più lavoro politico fuori dalla Palestina! [di Silvia Cattori]

11 Febbraio 2009

Sembra che ormai si
siano spenti i riflettori dei mass media sulla Palestina. Dopo aver distorto
quotidianamente anche i più basilari elementi di verità, passano ora
semplicemente a nascondere ciò che succede nei territori occupati dal 1948.
Come se fossimo davanti ad una nuova fase, ad un’era di pacificazione dopo
decenni di conflitto! Noi sappiamo bene che così non è. Sappiamo bene che la
“questione arabo-israeliana” non è nata con l’aggressione israeliana contro
Gaza del 27 dicembre. Sappiamo bene che la valorosa resistenza palestinese
lotta da più di sessant’anni contro l’oppressione quotidiana, contro uno degli
eserciti meglio armati del pianeta, contro un nemico appoggiato senza
tentennamenti dall’imperialismo statunitense ed europeo. Proprio per questo
siamo coscienti che il problema di fondo è quello dell’occupazione.
Un’occupazione che utilizza tutti i mezzi a sua disposizione senza eccezione
alcuna: tutto l’arsenale bellico in suo possesso (comprese bombe al fosforo
bianco e D.I.M.E.), l’arma della “disinformazione strategica”, l’incarceramento
degli oppositori politici, l’alleanza con U.S.A. e U.E., ecc.. Denunciare non
tanto i crimini dell’occupazione quanto il crimine che in sé stessa essa
costituisce è certamente un primo compito che è necessario assolvere.

Ma nelle interviste
di Silvia Cattori (tratte da rebelion.org), che abbiamo tradotto e che
riportiamo di seguito, emerge con estrema forza un’ulteriore consegna che ci
viene dalla Palestina: lottare con lo scopo di “obbligare” i governi a farla
finita con l’appoggio allo stato sionista (questo sì incondizionato, mentre
troppo spesso settori della cosiddetta ‘sinistra rivoluzionaria’ eccellono
nell’arte dei distinguo a proposito della resistenza palestinese). La nostra
solidarietà militante deve tradursi in un lavoro quotidiano che miri alla
costruzione di un movimento di massa capace di conseguire la fine
dell’occupazione. Per arrivare a quest’obiettivo è necessario riportare la
“questione palestinese” sui binari giusti. Come afferma uno degli intervistati:
“La vera causa palestinese è politica,
non umanitaria. La nostra non è una catastrofe umanitaria naturale! Si tratta
di una catastrofe umanitaria organizzata politicamente da Israele e dai suoi
alleati!”. La nostra risposta non può quindi che essere politica.

Il lavoro che abbiamo davanti è grande. La strada da
percorrere è lunga. Il principale contributo che possiamo offrire alla causa
palestinese è la lotta nelle nostre metropoli in primis contro l’imperialismo
di casa nostra.

Alla lotta!

clicca qui per
scaricare l’articolo completo tradotto dal C.A.U.

Che
tipo di solidarietà con la
Palestina? Più
lavoro politico fuori dalla Palestina!

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mso-fareast-language:EN-di Silvia Cattori

traduzione a cura del Collettivo Autorganizzato Universitario  

Tratto da: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=79848

[…] Abbiamo chiesto ad Omar Barghouti, analista
palestinese, di che tipo di appoggio hanno bisogno i palestinesi e cosa si
aspettano a riguardo da parte del movimento internazionale di solidarietà. Ha
risposto senza alcun dubbio:

“Poco tempo fa ho
pubblicato un articolo in cui parlavo di ciò di cui abbiamo bisogno. In
sintesi, mi preme dire che l’assistenza umanitaria è buona e necessaria se, e
solo se, si accompagna ad un’azione politica incessante per mettere fine
all’occupazione e all’apartheid di Israele. […] “I progetti che
appoggiano la tenacia dei palestinesi sotto occupazione, siano nel campo della
sanità, in quello educativo, in quello sociale o anche in quello politico, sono
di importanza cruciale e sono sempre indispensabili. Senza questi progetti
molti palestinesi, in particolare quelli più vulnerabili, non potrebbero
sopravvivere alla crudeltà dell’occupazione.

Apprezziamo
enormemente l’appoggio di questi progetti, almeno di quelli che non sono
corrotti né corruttori, come invece spesso accade. Tuttavia, ciò non
significa che siamo convinti che questi progetti, testimoni di appoggio ad una
nozione astratta di “pace”, possano, da soli, far fare passi in avanti alla
nostra lotta per la libertà e la giustizia.

Ciò si potrà
raggiungere solo mettendo fine all’occupazione e all’apartheid. E, lo sappiamo
per esperienza, il modo più sicuro, moralmente giustificato, è trattare Israele
così come si trattò il Sud Africa, vale a dire applicare a questo stato diverse
misure di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, adattate al contesto. Non
esiste maniera migliore di arrivare ad una pace giusta in Palestina ed in tutta
la regione”.

[…] Abbiamo posto le stesse domande ad un ricercatore
palestinese di 36 anni, il cui nome teniamo celato per evitare che possa avere
problemi. Secondo questa giovane generazione di palestinesi, la miglior forma
di solidarietà che possono fornire gli attivisti internazionali è politica. E
questo lavoro politico deve aver luogo fuori dalla Palestina, nei propri rispettivi
paesi.

L’opinione di un palestinese a Gaza

 “Sia che siamo d’accordo sia che non lo siamo
con l’azione e l’attitudine che questi attivisti internazionali che vengono in
Palestina hanno nei nostri confronti, dobbiamo essere accoglienti con tutti loro.
Non siamo altro che persone indifese, è logico che accogliamo amabilmente tutti
coloro che giungono qui per solidarietà. Le persone che soffrono e che si
trovano in una posizione di debolezza sono così.

Però la presenza di attivisti internazionali non
è necessariamente ciò di cui abbiamo bisogno qui. Ciò di cui abbiamo bisogno è
che lavorino fuori dalla Palestina, non qui. Qui è compito dei palestinesi.

Dopo tanti anni
siamo un po’ stufi di questi “volontari internazionali” o di queste “missioni
civili” che ogni tanto arrivano per mostrare appoggio. Sono atti ripetitivi che
non apportano alcun che di positivo alla gente e che non hanno un impatto utile
per la nostra causa.

I risultati di questi attivisti sarebbero molto più
efficaci se esercitassero pressioni su coloro che prendono le decisioni nei
loro paesi, per spingerli ad assumersi le loro responsabilità affinché mettano
fine alle sofferenze inflitte a tutta la nostra nazione, vittima di
un’ingiustificata occupazione delle sue terre.

La vera causa palestinese è politica, non umanitaria.
La nostra non è una catastrofe umanitaria naturale! Si tratta di una catastrofe
umanitaria organizzata politicamente da Israele e dai suoi alleati!

Gli attivisti devono affrontarla politicamente. Molte associazioni
commisurano gli aiuti e mettono in piedi progetti in base a ciò che conviene
loro. Dovreste vedere quali sono le condizioni di un campo profughi! Il caso
dei rifugiati, dei profughi, non è un caso umanitario che necessita dell’aiuto
di questi attivisti internazionali. No, il caso è politico. Questa è la ragione
per cui i movimenti di solidarietà
dovrebbero agire politicamente e non sotto forma di assistenza sul piano
umanitario o dei diritti umani.

Se si impegnassero
attivamente al di fuori della Palestina nell’esercitare pressioni sulle
decisioni dei propri governanti con l’obiettivo di raggiungere un cambiamento
qui, ciò permetterebbe loro di risparmiare molti sforzi inutili. Questo è ciò
che è necessario.

Gli attivisti del
movimento di solidarietà e dei diritti umani che onestamente vogliono
appoggiare la causa palestinese devono fare di più.

[…] Ciò che è davvero
necessario è fare in modo che questo messaggio arrivi molto chiaramente alle
autorità che in ogni paese possono influenzare ciò che accade in questa parte
di mondo. E’ necessario che ci si rivolga ai propri governi efficacemente, che
si chieda perché si schierano sempre al fianco di determinati gruppi
palestinesi (l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina) e, al contempo, si rifiutano di appoggiare le autorità elette di
Hamas, a svantaggio degli abitanti di Gaza, rifugiati a partire dalla pulizia
etnica del 1948 e oggi vittime di un occupante che li indebolisce e logora,
giorno dopo giorno, psicologicamente, socialmente e politicamente.

Esistono molte
risoluzioni dell’ONU a favore dei palestinesi. Ciò che devono fare in primo
luogo gli attivisti è riprenderle in mano per giungere a risolvere questa
questione. Questo è ciò di cui necessitiamo. I politici che prendono le decisioni all’ONU, nell’UE e
negli USA, conoscono perfettamente la situazione della Palestina sotto
occupazione israeliana. Ma nessuno di essi farà nulla finché non saranno
sottoposti ad un’enorme pressione popolare. Quando i movimenti di solidarietà
riusciranno ad agire in questa direzione, ad avanzare in questa prospettiva
politica, allora la loro azione sarà molto utile per il popolo palestinese.

[…] Se i vostri governi
ed i gruppi di solidarietà lavorano con i diplomatici ed i rappresentanti di
questa Autorità Palestinese di Ramallah che opprime il suo stesso popolo ed
invita l’Egitto ed Israele a chiudere Gaza e ad ucciderci di fame: di cosa
stiamo parlando?

Gli occidentali
vedono i palestinesi come rappresentati da Hamas o da Fatah e l’OLP.
Critichiamo questa tendenza dei governi (ma anche dei responsabili della
solidarietà) a considerare la nostra situazione in termini di un gruppo
“radicale” e di un gruppo “moderato”, e a fornire aiuto ad uno e non all’altro.
I palestinesi non sono rappresentati né da Fatah né da Hamas. La Palestina è la Palestina, non qualcosa
che si può dividere.

Pertanto, i movimenti di solidarietà, coloro che
fanno politica, dovrebbero considerare la questione palestinese come un unico
corpo, come un’unica voce. Dovrebbero esigere una sorta di revisione della
causa palestinese. Non dovrebbero
presentare, come invece fanno, i problemi relazionati con la questione
palestinese a partire dal 1967, ma dal 1948.

Domanda: Allora Lei è scettico in relazione all’utilità
di quegli attivisti internazionali che dall’estate scorsa arrivano a Gaza in
nave per rompere il blocco e che chiedono che arrivino volontari per stabilirsi
a Gaza per un periodo di tempo prolungato? Non mandano un messaggio politico a
favore dei diritti umani degli abitanti di Gaza e dei diritti sulle proprie
acque territoriali?

I palestinesi di
Gaza che da un anno e mezzo sono sottoposte ad un blocco non possono fare altro
che accogliere questa solidarietà. Non possono rifiutarla, hanno bisogno di
vedere che all’estero ci sono appoggio e preoccupazione per la loro sorte.

Però, molto
onestamente, credo che, di fatto, sarebbero bastati i primi “attivisti” di
“Free Gaza” arrivati a Gaza ad agosto con la prima nave. La loro iniziativa
conseguì l’obiettivo: hanno mandato un messaggio al mondo dicendo che a Gaza
c’è una popolazione che ha bisogno di aiuto. Lo hanno raggiunto e furono molto
ben accolti dal governo di Hamas. Quest’iniziativa era sufficiente.

Temiamo che se
questi militanti tornassero periodicamente e rimanessero qui finirebbero per
stancare, addirittura per molestare gli abitanti di Gaza. La gente comincerebbe
a chiedersi: “Che tipo di iniziativa mettono in pratica? Che fanno davvero per
noi?

Gli attivisti
internazionali che stanno arrivando a Gaza sotto la bandiera del Movimento
“Free Gaza” sono una sorta di prolungamento delle campagne di solidarietà che
abbiamo già conosciuto durante gli ultimi decenni del conflitto
israelo-palestinese. Molti palestinesi li ignorano. Sono conosciuti e
apprezzati solo da alcune istituzioni politiche, da alcuni partiti e ONG che
sono in contatto col mondo esterno; ciò è davvero allarmante.

La maggior parte delle azioni che hanno portato avanti
gli attivisti internazionali in Palestina sono una perdita di tempo e di denaro.

I palestinesi sono capaci di badare alle proprie vite;
sono in grado di far fronte alle proprie difficoltà. È la loro vita: vivono
come rifugiati da 60 anni e possono far fronte a questa situazione tragica. Per ciò che
concerne le navi che portano merci, sono le benvenute nella misura in cui non
siano mezzo di strumentalizzazione.

Dopo 60 anni e con
le cose che vanno di male in peggio, ciò che manca ora è di agire in maniera
efficace per metter fine all’occupazione. Fuori dalla Palestina dovrebbe realizzarsi
un’iniziativa decisiva in relazione alla sofferenza dei palestinesi e della
loro causa; iniziative politiche che obblighino i detentori delle leve del
potere a muoversi nella direzione di porre fine alle atrocità.

Le ripeto: il
problema più grande per i palestinesi è l’inattività di quelli che prendono le
decisioni in seno alla “comunità internazionale” e il loro pregiudizio in
favore delle forze che collaborano con l’occupante illegale. Questa inazione è
possibile perché gli attivisti non
rispondono in maniera adeguata a ciò di cui abbiamo bisogno e a ciò che
chiediamo da tanti anni. I militanti del movimento di solidarietà devono
esercitare pressioni sule loro autorità ed organizzare manifestazioni di
protesta davanti alle sedi dei loro governi, incalzarli.

Speriamo che tutti quelli che dicono di volerci aiutare
dedichino i loro sforzi ed il loro tempo a svolgere questo lavoro di pressione
all’estero, nei rispettivi paesi, non qui. Solo questa pressione ferma ed
instancabile sui governi e sull’opinione pubblica in occidente può aiutarci a
trovare una soluzione che ponga fine all’occupazione coloniale; questa è la
cosa più importante da fare ora.

Domanda: L’ha sorpresa il fatto che fino ad ora la
marina israeliana abbia lasciato passare le navi del movimento Free Gaza, e che
invece abbia negato il passaggio alla nave carica di aiuti umanitari inviata
dalla Libia e ad una contenente medicinali, proveniente dal Qatar?

Lei sa molto bene
che se la marina israeliana non vuole lasciar passare una nave, nessuno potrà
penetrare nelle acque territoriali di Gaza.

Israele controlla
tutti gli aspetti della vita dei palestinesi: la terra, il mare, l’aria. Lei
crede che, se gli israeliani non avessero voluto permetterlo, le imbarcazioni
del movimento Free Gaza sarebbero potute entrare e “rompere il blocco”? E
allora di cosa parlano questi organizzatori di Free Gaza? Hanno rotto il
blocco? La potenza occupante controlla tutto, anche le navi di Free Gaza.

[…] Il ministero
israeliano degli Affari Esteri ha affermato che la nave libica è stata bloccata
perché l’assedio a Gaza è parte di una pressione politica esercitata su coloro
che governano la Striscia,
vale a dire Hamas.

Questa
giustificazione data dagli occupanti illegali è accettata da questi attori
internazionali che si limitano ad osservare le cose da lontano senza dar luogo
alla più piccola iniziativa. Ma questa complicità non è propria solo di questi
attori internazionali cui non piacciono i governanti di Gaza: purtroppo è
relativa anche ad alcuni governi arabi. E a partiti e gruppi palestinesi.

Domanda: In base alla forma in cui si attuano, le
azioni di solidarietà possono essere controproducenti? Appoggiare un partito e
rifiutarsi di fare lo stesso con un altro può contribuire a dividerli?

La soluzione a tutti
questi problemi è aiutare i palestinesi ad unirsi e a sedersi ad un tavolo di
negoziati; aiutarli a trovare una soluzione alle divisioni e a risolvere i
problemi che sono apparsi sulla scena un anno e mezzo fa.

Il movimento di
solidarietà non deve aggiungere ulteriori difficoltà a questa situazione
terribilmente complicata.”
 

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