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Un’altra volta… e un’altra onda!

28 Maggio 2009
l’articolo che segue è pubblicato sulla rivista la Contraddizione, n° 127

 

 
alcuni appunti di ritorno dal G8 University Summit di Torino, 17-19 Maggio 2009 
 
Questo maggio è caldo, molto. Ma a Torino lo è
stato ancor di più. In pochi giorni sono tornati visibili i soggetti
che da mesi stanno pagando questa crisi. Si è cominciato sabato 16 con
il corteo degli operai FIAT: in 15.000 hanno gridato la propria rabbia
da Mirafiori al Lingotto. Da domenica 17 a martedì 19, invece, hanno
attraversato le strade migliaia di studenti determinati a bloccare il
G8 Università. Gli scambi fra le due mobilitazioni, le relazioni
intessute, le tensioni accumulate, le ingiustizie subite, hanno fatto
sì che, in modo ancora precario ma promettente, da diversi sentieri si stia scendendo a valle per un’unica guerra,
quella contro chi tiene le leve del comando, dispone della vita delle
persone, mette in atto o traduce le direttive del capitale. Qui
possiamo solo mettere in rilievo alcuni aspetti della nostra
mobilitazione come studenti. Senza però dimenticare alcuni elementi che
riguardano chiunque, nell’attuale stato di cose, sia o si senta
oppresso, chiunque abbia deciso di lottare per un cambiamento radicale.
Per cercare di capire come unire le mobilitazioni ed aprire un nuovo ciclo di lotte sociali…
 

Le proteste contro il G8 University Summit di Torino hanno
rappresentato un momento davvero importante. La cosa che salta agli
occhi di tutti, e da cui vale la pena partire, è che finalmente
si è mostrato il portato conflittuale, ed allo stesso tempo
partecipato, del movimento studentesco. Una determinazione che sembra
indicare la strada da seguire: non quella “di farsi istituzione” –
come vorrebbero alcuni all’interno del movimento, cosa che, soprattutto
in tempo di elezioni, non può non suonare sospetta e mortificante – ma
quella di portare a fondo la critica all’istituzione, tentando addirittura di bloccare il suo incessante lavoro di controllo e produzione ideologica.

Partiamo dai dati più evidenti: i numeri del corteo, grazie alla giusta tattica di comunicazione dei giorni precedenti ed alla mobilitazione militante di alcuni nodi locali, sono stati superiori alle aspettative, sono state circa diecimila le persone che hanno marciato per le vie di Torino. Nonostante il periodo difficile, che vede accavallarsi corsi ed
esami; nonostante il luogo – Torino non è esattamente dietro l’angolo!;
nonostante la difficoltà di spostarsi (una volta che Trenitalia ha come
al solito imposto tariffe impossibili); nonostante il carattere
autorganizzato della protesta, che ha dovuto autofinanziarsi;
nonostante il martedì, e nonostante la manifestazione si svolgesse di
mattina (cosa che ha impedito la partecipazione di molti altri
soggetti, nonché degli stessi studenti-lavoratori).

Questo vuol dire che il taglio dato alla
protesta, tutto incentrato sull’idea del “blocco”, e forse anche la
molteplicità delle forme che questa ha preso, ha saputo destare una
certa attenzione e coinvolgere diverse sensibilità. Senza che per
questo si siano create scissioni fra “buoni” e “cattivi”: stavolta
il teorema degli ingenui studenti presi in ostaggio da pochi black
block non tiene proprio. Le azioni previste nei giorni precedenti, e
poi durante il corteo del 19, prima più scherzose (sfilata dei clown,
lancio di gavettoni, palloncini con la vernice, uova), poi più di
denuncia contro obbiettivi specifici (General Motors, banche,
Rettorato, agenzie interinali…), hanno fatto sì che non ci si sia
limitati ad una “passeggiata” di testimonianza. Questo è il fatto
apprezzato da tutti gli studenti presenti, che hanno partecipato in
prima persona al tentativo di blocco, facendo forse per la prima volta
esperienza dello scontro. Un’esperienza che nel panorama italiano, da
Genova in poi, è andata un po’ persa, a misura di quanto aumentava
negli altri paesi europei. Un’esperienza che però dobbiamo recuperare, vagliare criticamente, praticare, se intendiamo strappare qualche vittoria significativa, come l’abrogazione delle “riforme” o dei tagli.    

Inoltre, grazie anche ad una buona gestione di piazza da parte delle
realtà presenti (a parte Rifondazione, la cui “ritirata” dietro i
cordoni della polizia sembra essere stata la rappresentazione visibile
della sua ritirata da qualsiasi lotta sociale), si sono contenute le inevitabili, e certo dolorosissime, conseguenze:
quella di qualche ferito, di svariate persone intossicate dai gas, e
soprattutto dei due arresti, di Alessandro e Domenico, a cui va tutta
la nostra solidarietà. Anche se la repressione potrebbe ancora
abbattersi sui compagni individuati dai filmati, di questa mobilitazione rimarrà la maturità, la capacità di lavorare in prospettiva, per il G8 de L’Aquila e per le prossime proteste dell’autunno. Insomma, non
siamo stati al di sotto delle aspettative delle forze dell’ordine e
degli altri apparati di controllo che, più di un’esplosione di massa
generica, temono proprio questo tipo di sedimentazione organizzata e
cosciente. Ma ora entriamo nel merito, analizziamo il
comportamento e i contenuti delle nostre controparti, portiamo uno
sguardo critico su noi stessi, e cerchiamo di capire un poco di più
come dobbiamo muoverci.

INSOSTENIBILMENTE LEGGERI
Così potrebbero essere definiti, in
prima battuta, i Rettori. Sono loro ad essere usciti da questa
mobilitazione con un’immagine alquanto lorda. Non pesa solo il fatto –
semplice ma innegabile – che mentre l’Università è allo sfascio, con
intere strutture a pezzi, servizi inesistenti, borse di studio
magrissime e contratti precari a go go, i dirigenti degli atenei
organizzino convegni in ville e parchi, fra cene e alloggi milionari…
Semmai ciò che colpisce il “cittadino medio” è l’ingenuità di chi, non
potendo prendere decisioni politiche (come ha più volte ribadito il
manager-organizzatore dell’evento, Francesco Profumo), mette su un
vertice che causa tutto questo casino… In realtà per noi la
leggerezza dei Rettori non è la superficialità tipica degli
intellettuali che si misurano con una dimensione pubblica che non
padroneggiano. Il vertice G8 sull’Università è infatti qualcosa che può
anche essere soppresso: ciò non toglie che chi gestisce la formazione
(e il mercato della formazione) a livello europeo e mondiale avrà
sempre più bisogno di luoghi di incontro. Si tratta infatti di
rimodellare l’Istruzione e la Ricerca alle logiche di profitto e del
mercato. La leggerezza dei Rettori è quindi quella di tutto il modo di
produzione capitalistico: un modo che per riprodurre se stesso distrugge l’ambiente, sfrutta e affama la stragrande maggioranza degli esseri umani. È la leggerezza di chi non vede più in là del proprio portafoglio, e continua imperterrito a suonare mentre la barca va a fondo.

Purtroppo, anche se i Rettori hanno fatto una figura meschina, resta il
fatto che alcune posizioni sono state espresse, ed è nostro compito
considerarle, per capire qual è il ruolo che l’Università assumerà in
tempi di crisi. Da questo punto di vista, siamo in sostanziale
continuità con la dichiarazione di Sapporo del 2008: i Rettori 
propongono ancora questo concetto di “sostenibilità”, a cui adesso
coniugano quello di “responsabilità”. Ciò che emerge dalla Dichiarazione Finale è un insieme di banalità:
l’Università deve sollecitare un’attenzione verso l’ambiente, deve
pensare uno sviluppo che non distrugga il pianeta, ovviare con i suoi
suggerimenti alle disuguaglianze più clamorose, agire una “new economy”
dall’approccio etico…
Questa retorica apparentemente vuota non rappresenta solo il canale di
deviazione di qualche possibile critica al sistema, l’utopia di un
capitalismo senza sfruttamento dell’uomo e dall’ambiente, un
capitalismo “dal volto umano” che generi ricchezza senza estrarla dalla
fatica dei lavoratori e dalla distruzione della natura… Rappresenta, invece, il tentativo di rinnovare il linguaggio dell’oppressione.
Attraverso la leva di una supposta “sostenibilità” (molto difficile
invero da “sostenere”, visto che non taglia le emissioni industriali, e
gli scarichi inquinanti, ma punta a sviluppare il nucleare, i
biocarburanti, gli OGM…), si tenta di mettere in piedi un
organismo di gestione della crisi a 360°, che imbarchi ufficialmente
docenti e ricercatori nel progetto corporativo della globalizzazione
neoliberista.  

Insomma, il trucco è vecchio, anche se si cela dietro parole nuove:
mentre si magnificano i valori della cultura e della scienza, si
intende che il rapporto con il capitale privato è essenziale; mentre si
dice che c’è un disastro economico e sociale da risolvere, si
fortificano quegli organi che il disastro l’hanno creato. Mentre le
università continuano a siglare collaborazioni con imprese belliche e
multinazionali del farmaco o dell’alimentazione, le istituzioni accademiche si assolvono come “neutrali ed oggettive”, portatrici di conoscenze finalizzate ad un progresso armonico. Se
dunque gli organi dirigenti delle università non si pongono come
semplici esecutori, ma essi stessi si pensano ed agiscono come “policy makers” che partecipano nella definizione dei nuovi equilibri geopolitici, è perché un intero settore è ormai stato sussunto nella logica del capitale, perché il
pubblico è diventato uno spazio di investimento e di profitto, che il
privato può usare per ammortizzare i costi di formazione del suo
personale e quelli di ricerca dei suoi prodotti… In un mercato
della conoscenza sempre più profittevole e competitivo, si affida al
Rettore-manager il compito di fare cassa, di vendere bene la sua merce,
e magari di ottenere l’etichetta di “eccellente” se si mostra
particolarmente disposto alle sollecitazioni imprenditoriali, o se
elabora qualche buona soluzione per rilanciare i profitti. Così
l’Università sforna leader nei poli d’eccellenza, e nel resto
degli atenei una massa di lavoratori ricattabili e precari che
dispongono solo di una serie parcellizzata di conoscenze da “vendere”
sul mercato.

Ecco quindi le proposte che i Rettori porteranno ai capi di Stato: incentivare
i finanziamenti in quei settori-chiave per lo sviluppo capitalistico (a
scapito quindi di tutte le altre discipline); migliorare le prestazioni
dell’“hardware”, ovvero dei campus universitari, per far funzionare meglio il “software”, ovvero “il capitale umano”
– e già questo linguaggio tradisce le idee che animano questi signori;
considerare le proposte degli studenti solo quando vengono da quei
lacchè che hanno sfilato al Summit di Palermo, assatanati in carriera,
gente che non ha niente a che vedere con il corpo studentesco;
sviluppare “partnership con i settori privati e non-profit per trasferire conoscenze e commercializzare nuove tecnologie”; “trovare opportunità per i paesi in via di sviluppo”,
magari con l’aiuto di qualche ONG umanitaria e sinistrorsa, che faccia
penetrare l’idea di “impresa” laddove manchi ancora. È poi così
sorprendente che, riconoscendo implicitamente nella conferenza stampa
di chiusura la riuscita delle proteste, Francesco Profumo parli di “malessere degli studenti”?


CASCHI IN MANO E CARICATI SUL DIVANO
Mentre per le strade di
Torino alcuni, caschi alla mano, difendevano un’altra idea di
università e di mondo, c’era chi in ogni singola casa di questo Paese,
veniva caricato da un flusso di notizie fuori controllo, non meno
violento dei manganelli degli sbirri. Il linciaggio mediatico contro il
corteo del 19, proprio come quello subito dallo SLAI COBAS dopo il
corteo di sabato 16, mostra la funzione attuale dei media: non solo
quella di coprire, negare, rinforzare la mentalità più retriva
dell’opinione pubblica. Siamo invece davanti a una funzione produttiva:
per i media mainstream si tratta di costruire il senso comune intorno ad un evento.
Questa funzione si pone al di là dell’obbedienza ad una ristretta
direttiva politica, e lavora nel senso della conservazione degli
equilibri attuali al fine di prevenire l’insorgenza dei movimenti. Per
questo si può riscontrare, sempre di più, una sostanziale uguaglianza
di vedute anche fra quotidiani sedicenti di “sinistra” e quotidiani di
destra. Per non parlare dell’omogeneità e interscambiabilità dei
messaggi televisivi.  

È dunque un discorso, quello dei media, che per la sua incidenza va
senza dubbio affrontato, smontato pezzo pezzo. Sia dicendo le cose come
stanno, come davvero sono andate – ricordate Orwell? “nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”! – sia comprendendo la logica di questo dispositivo, le esigenze a cui risponde. Prendiamo come esempio i tg: dopo il corteo del 19 si sono sbizzarriti, parlando di una “guerra”, di “venti minuti di pura follia”, di “violenza inconcepibile, brodo di cultura del terrorismo”, della discesa in piazza di alcuni “guerriglieri”
(ecco la sentenza di Brunetta di qualche mese fa ripresa come verità
indiscutibile!). Si è giunti così a vere e proprie invenzioni,
dipingendo lo scenario di una “città blindata”, in cui “meno manifestanti del previsto” avrebbero “sfasciato vetrine”, “incendiato macchine”, e lanciato “slogan minacciosi” (ci sarebbe persino un esempio: quello di alcuni barbari spezzoni che gridavano “bruciamo la città”!).
Proprio a misura della risposta positiva dei cittadini torinesi e
della compattezza del corteo, dell’impossibilità di dividerlo in varie
“anime”si sono dunque inventate e ripetute ossessivamente menzogne da consegnare al telespettatore come notizia. Magari lasciandogli il piacere di sfogarsi sui vari forum aperti dai quotidiani on line,
la cui funzione è ormai quella di “colorare” il messaggio
apparentemente neutro della stampa, facendo partecipare ognuno alla
propaganda, rendendo complice del falso.

In ogni caso due sembrano le indicazioni da ricavare. Innanzitutto che i media
non hanno problemi a sostenere ed appoggiare lezioni in piazza e corsi
alternativi, così come candidature alle elezioni studentesche, mentre temono (anche se per diversi motivi), una presa di parola senza mediazioni e l’azione diretta del movimento.
Se si criminalizza il conflitto, mentre si esalta l’iniziativa
concordata con le autorità, vuol dire che da un lato c’è qualcosa che
preoccupa, mentre dall’altro c’è qualcosa che può essere assorbito
senza tanti problemi. Chiaramente lo spazio di visibilità aperto dagli
scontri deve essere immediatamente riempito di contenuti alternativi.
Di conseguenza per il movimento si pone l’esigenza di sostenere ed utilizzare al massimo i suoi media (come indymedia, infoaut, radio blackout…), sviluppando l’autoproduzione dei contenuti, allargando la loro sfera d’influenza. Con l’informazione mainstream
si dovrebbe mettere in atto la stessa dinamica di contrapposizione che
regola i rapporti del movimento con l’istituzione: nessuna commistione,
nessuna ambiguità. Se vogliono le notizie, se le venissero a prendere
dalla viva voce dei manifestanti, venissero a cercarle sui nostri siti,
in quello che diciamo, in quello che siamo in grado di documentare.

THEY’RE TRYING TO BUILD A PRISON

Ma il flusso di notizie è solo
uno dei modi con cui si cerca di costruire una prigione intorno al
movimento. L’altro è quello classico della repressione, fatta di fermi
preventivi prima del corteo, cariche, imponenti schieramenti di uomini
e mezzi. Anche stavolta, più che la violenza cieca di manifestanti
venuti dalla luna, quello che è andato in scena è stato un allestimento securitario.
La strategia scelta della polizia – proprio per ricevere il plauso dei
media, puntualmente giunto – è stata di disperdere il corteo lanciando
molti lacrimogeni anche oltre la zona degli scontri, non cercando il
corpo a corpo (farebbe quindi quasi ridere, se non “servisse”, la
notizia di 24 feriti fra i poliziotti: gli agenti o sono caduti da soli
o sono rimasti intossicati dai loro stessi lacrimogeni; in ogni caso si
sono fatti ampiamente refertare, laddove nessun manifestante, dopo i
fatti di Genova del 2001 e di Milano del 2003 oserebbe mai metter piede
in un ospedale. A dimostrazione che, se nelle amministrazioni pubbliche
ci sono “fannulloni”, Brunetta dovrebbe trovarli tutti fra le forze
dell’ordine).
Proprio perché l’allestimento securitario non inizia e non finisce a
Torino bisogna stare attenti: sempre più frequentemente le denunce
arrivano molto dopo i fatti contestati, in seguito a precise direttive
politiche; in questo modo si cerca di tutelarsi da risposte immediate
dei manifestanti. Anche in questo senso Torino ha saputo essere un buon banco di prova:
nei giorni successivi, presidi, azioni, striscioni, comunicati, hanno
dimostrato che le nostre idee non si possono arrestare, che c’è
solidarietà nel movimento.

In conclusione, la repressione è sempre vigile, anche se per
il momento (e sotto elezioni) più che arrivare subito allo scontro, sta
attendendo indicazioni. Per potere poi reagire con violenza in caso di
effrazione di quel perimetro sempre più stretto che ci sta tracciando
intorno (da questo punto di vista non è un caso che il territorio
dell’Abbruzzo si stia sempre più militarizzando, e che un sindacato di
polizia parli, il 20 maggio, di allungare la soppressione del Trattato
di Schengen, già prevista in vista del G8 di luglio). I
comportamenti della polizia dipenderanno dal discorso politico
dominante, e dalla nostra capacità di contestarlo e di convincere gli
scettici. Finché ci sarà un largo – ma quanto apparente! – consenso
intorno alla punizione dei cosiddetti “violenti”, dovremo tenere alta
la guardia: denunciando senza mezzi termini la repressione e chi,
coscientemente o no, l’asseconda.

UN’ALTRA VOLTA… E UN’ALTRA ONDA!

Una volta comprese le mosse
delle nostre controparti – istituzioni, media, forze dell’ordine… – e
delineata qualche nostra risposta, si vede come quello che viene
fuori dalle giornate di Torino è soprattutto il senso di una
possibilità. Possibilità di ripetere e ricominciare una mobilitazione –
un’altra volta! – possibilità darle un portato conflittuale che nella
prima fase era escluso – ecco un’altra Onda, un’Onda diversa. Di
fronte ai tagli (che, andrebbe sempre ricordato, sono progressivi nei
prossimi 4 anni) e di fronte ai costi sociali della crisi (proprio in
questi giorni Confindustria ha accennato alla probabilità che la
ripresa non arrivi prima del 2013!), il movimento studentesco potrebbe assumere una nuova fisionomia.
Potrebbe articolarsi capillarmente sui territori, puntando a
contrastare dai suoi atenei i passaggi attuativi delle riforme,
tentando di coinvolgere tutti gli studenti, ma mirando soprattutto a
dare forma all’insoddisfazione ed al dissenso.   

Certo, c’è ancora una certa difficoltà a recepire la connessione fra
livello internazionale (G8, Processo di Bologna…), e livello locale.
Perciò bisogna che ci rendiamo conto dell’esistenza di luoghi dove si può condensare il conflitto.
Provare ad entrare nella “zona rossa” ha significato dimostrare di non
voler accettare i limiti che ci impongono, di voler infrangere tutto un
ordine di cose, basato sull’esclusione e sullo sbarramento. È stata la
messa in discussione del concetto di “legalità”, che serve a sostenere
un sistema autoritario, dove a pagare è chiunque abbia qualcosa da
ridire, persino i writer o i blogger (e infatti recenti sono i provvedimenti repressivi in materia). Da questo punto di vista
un altro passaggio, seppur difficile dati i tempi e le distanze,
potrebbe essere rappresentato dai prossimi incontri specifici del G8:
quello di Roma sull’Immigrazione e quello di Lecce sull’Economia. Per
arrivare al vertice de L’Aquila ed al prossimo autunno con una crescita
politica complessiva ed una maggiore interazione fra le diverse
componenti.

Davanti al tentativo, finora purtroppo riuscito, di scaricare i costi della crisi sulle classi subalterne, la sfida è quella di aprire le lotte universitarie alle lotte dei lavoratori, come in parte si è riuscito a fare negli scorsi mesi ed anche a Torino; di far percepire le lotte per la formazione e la ricerca come lotte di classe,
che non mirano a tutelare privilegi o a garantire la mobilità sociale,
ma ad emancipare settori della società finora esclusi dall’istruzione
superiore, o per i quali l’istruzione attuale è solo training allo sfruttamento.
La sfida dunque è quella di parlare alla metropoli tutta, di
formare, non in modo autoreferenziale o autocelebrativo, alla critica
ed al conflitto una nuova generazione, di fare dell’Università un luogo
di transito per le contraddizioni in cui si dibattono gli sfruttati. E la strada è quella dell’autorganizzazione sociale, della creazione di reti, della ricomposizione politica della frammentazione patita dalle vecchie e nuove forme di lavoro.

Non dobbiamo pensare che il percorso sia breve, ma nemmeno che la
marcia sia troppo lunga. Perché da perdere, ormai, non abbiamo che le
catene. Mentre da guadagnare ci resta un mondo!
(divisione peraltro corrente solo in Italia, in voga da Genova in poi),

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