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Alcuni elementi di chiarificazione sulla manifestazione contro il G8 a l’Aquila

27 Luglio 2009

de la "Rete Campana NO G8 in solidarietà con le popolazioni dell’Abruzzo"

 
Il recente vertice del G8 tenutosi a L’Aquila ha visto svilupparsi nelle file del movimento sensibilità ed attitudini diverse che hanno condizionato inevitabilmente tutte le iniziative contro la presenza del summit dei potenti. Se nel corso della preparazione delle iniziative la polemica è stata più che altro implicita, essa è esplosa con virulenza alla chiusura del vertice dopo il corteo del 10 luglio. In particolare l’area degli ex disobbedienti ha pubblicamente e ripetutamente criticato in maniera aspra, e per quanto ci riguarda demagogica, la scelta di tenere la manifestazione nazionale.

Come Rete Campana contro il G8 siamo stati particolarmente impegnati per la riuscita della manifestazione centrale: a maggior ragione per la sfida lanciata dal capo del Governo che esplicitamente aveva dichiarato di voler spostare il vertice in Abruzzo per rendere più complicato replicare le mobilitazioni che anche recentemente hanno caratterizzato sul piano internazionale tali summit. Proprio in virtù del becero utilizzo della tragedia del terremoto che aveva colpito quei territori si tendeva a creare una sorta di clima di Unità Nazionale rispetto al quale ogni contestazione poteva più facilmente essere criminalizzata. A santificare tale concordia nazionale “per il bene del paese” si è speso persino il Presidente della Repubblica che ha esplicitamente invitato ad abbassare i toni della polemica nei giorni del vertice. Dopo il boicottaggio “ufficiale” dei media e della politica istituzionale, è arrivato anche quello di una componente para-istituzionale del movimento. E non solo nelle settimane immediatamente precedenti, ma ancora a mobilitazione conclusa. Alcuni articoli comparsi in questi giorni, infatti, mirano a sbeffeggiare chi si era speso per la riuscita della mobilitazione, spingendoci a ribadire ulteriormente le ragioni che ci hanno spinto a lavorare in tale direzione.

Non si tratta tanto di rispondere ad attacchi che ci sembrano essere nella loro scompostezza più il sintomo di una difficoltà per aver dovuto registrare il sostanziale fallimento dei propri tentativi di far fallire la manifestazione nazionale, con conseguenti interrogativi che cominciano a serpeggiare nelle proprie fila, quanto di fare un bilancio di questa esperienza e trarne insegnamenti per il futuro, di far emergere le diverse chiavi di lettura della realtà e le attitudini che ne discendono. Non entreremo pertanto nelle valutazioni circa la consistenza delle varie mobilitazioni poiché denotano da sole il livore per il fatto stesso che la mobilitazione del 10 luglio si sia nonostante tutto tenuta proprio a fronte da una esplicita campagna per farla saltare in convergenza con settori come l’Arci, la Cgil ed il PD, notoriamente espressione genuina di settori sociali autorganizzati e territoriali di cui si vaneggia.


A proposito di radicamento sui territori e di localismo

La principale argomentazione per sostenere l’inutilità della mobilitazione nazionale è stata infatti che essa non era sentita dagli Abruzzesi e quindi essa si presentava come una forzatura. Qui emerge un primo punto di sostanziale dissenso, non perché noi fossimo convinti della diffusa voglia e consapevolezza circa la necessità di contestare il vertice del G8, ma perché questo dato va registrato come un limite di arretratezza delle varie realtà in lotta su obiettivi specifici e non invece come un elemento da  valorizzare come ci viene prospettato. Gli attivisti che spesso sono interni a tali vertenze territoriali dovrebbero interrogarsi sul proprio ruolo se, nonostante la centralità della loro presenza, non si riesce a far cogliere l’importanza di dare una prospettiva di carattere generale alla propria lotta, né quanto le vicende che li vedono mobilitati dipendano direttamente dalle decisioni politiche e dalle conseguenze delle relazioni sociali dominanti.

Non è assolutamente condivisibile che le lotte territoriali, in cui noi tutti siamo impegnati, vengano messe in aperta contrapposizione a mobilitazioni di carattere generale ma anche a forme di coordinamento che possano mettere in relazione le varie lotte dando ad esse un carattere unificante e di fatto politico. Ci sono diverse ragioni per cui viene sostenuta questa assurda dicotomia: a parte la demagogia sul nuovo rappresentato da tali esperienze – che sarebbero mortificate da qualsiasi tentativo di farle fuoriuscire dal loro imperante localismo –, uno degli aspetti decisivi è rappresentato dalla convinzione che ad esprimere il tessuto connettivo debba essere nei fatti la rete dei propri attivisti insediati nelle principali esperienze di lotta. Infatti per quanto venga agitato il vessillo della “irrapresentabilità” di tali movimenti, quando poi si tratta di spendersi sul piano della visibilità e della comunicazione a prendere parola sono puntualmente gli attivisti di tale area, o da essi influenzati, camuffati da semplici cittadini. Tale mistificazione consente di poter esprimere le posizioni più disparate e spesso anche indifendibili, in quanto “espressione delle comunità in lotta”,  togliendo legittimità a qualsiasi tendenza politica si presenti con caratteristiche generali e nazionali. L’area degli ex disobbedienti, che agita continuamente la fine di ogni ipotesi partitista, agisce come una delle più significative esperienze di partito presenti sul territorio nazionale, ricorrendo agli strumenti più tipici di tale modalità: oltre ad un ferreo coordinamento degli attivisti che si muovono con unità di intenti e parole d’ordine decise centralmente, ovunque siano collocati, strafregandosene delle “comunità in lotta”, essi si comportano da vera falange organizzata con tanto di funzionari che si catapultano dall’esterno in qualsiasi situazione di lotta cercando di monopolizzarne la rappresentanza e l’agire politico.

Ma l’insistenza sulla specificità dei territori e la derisione di qualsiasi ipotesi di movimento più generale è legata anche alla possibilità di esercitare pratiche di lotta che altrimenti emergerebbero in tutta la loro pochezza ed il loro moderatismo. Si tratta di quel famoso “attraversamento” delle esperienze locali in nome del quale ci si attesta sulle richieste più compatibili, quelle ritenute più “credibili” e realistiche, da perseguire magari coniugandoli con l’interlocuzione con i rappresentanti delle amministrazioni locali che, colpiti da singoli provvedimenti decisi dal governo, devono pur rendere conto alla proprio base elettorale incazzata e quindi si prestano a fare da relativa sponda ai movimenti in vista di un loro riassorbimento e di futuri investimenti elettorali.
Per tale motivo è più complicato far emergere una lettura di classe dello scontro in atto che, mentre punti a difendersi dalla specifica conseguenza sulla propria vita quotidiana, faccia crescere la consapevolezza della necessità di uno scontro politico generale e della necessità di unirsi con gli altri settori proletari in lotta contro lo sfruttamento di cui sono oggetto quotidianamente.

Assecondare la logica “comunitaria” e territoriale consente forse in un primo momento di avere in loco un consenso più ampio, ma crea le premesse per il suo isolamento e la sua perimetrazione, presentandola negli altri territori come qualcosa di “egoistico” e particolaristico a discapito degli interessi generali. Si innesca così un meccanismo perverso per cui si cerca di far derivare la propria forza nei confronti della controparte non dall’estensione e generalizzazione del movimento ma dalla propria limitatezza, dal fatto che su tali basi sono coinvolte e solidali anche figure istituzionali e intellettuali, che però condizionano il proprio sostegno proprio al mantenimento di una ragionevolezza che si concretizza nella non radicalità delle forme oltre che dei contenuti della protesta, e al mantenimento del movimento entro un ambito strettamente compatibile.
Non che manchino richiami alla natura più generale dell’oppressione capitalistica, ma questi vengono tenuti nel sottofondo, vi si allude in maniera vaga e generica perché decisivo diventa non incrinare le relazioni che si sono stabilite. Lo stesso meccanismo si ripropone nei confronti di altre comunità in lotta. Se queste fanno parte del circuito in cui sono inseriti i propri attivisti allora diventa decisivo esprimere la propria solidarietà ed il proprio sostegno, oppure si usa la presenza in alcune di queste mobilitazioni come testa d’ariete per cercare di farsi strada anche in altre mobilitazioni in cui non si è presenti. In ogni caso la reciproca solidarietà non va programmaticamente oltre il criterio del “mutuo soccorso”, per cui se vi è una scadenza decisiva per la vertenza in corso in un determinato territorio, si invitano delegazioni delle altre comunità a partecipare, ma stando ben attenti a non proporre una vera unificazione delle lotte e la realizzazione di un’unica vertenza nazionale, persino quando queste hanno lo stesso identico obiettivo come la lotta in difesa dei beni comuni.
Come attivisti della Rete non abbiamo nessun atteggiamento di sufficienza verso le lotte locali e territoriali.
L’allargamento della partecipazione alle mobilitazioni però non può e non deve andare in contraddizione con la più completa indipendenza dei movimenti, con la denuncia di classe delle misure con cui si trovano a confrontare le lotte, in modo da contenere da subito elementi di generalità in cui possano riconoscersi anche altri settori sociali non coinvolti in quelle mobilitazioni e sentirle come una propria battaglia. Che si tratti di rifiuti, di attacco a scuola ed università, del processo di precarizzazione del lavoro, fino alla Palestina ed alle aggressioni imperialiste, la denuncia di questi rapporti sociali, di questo sistema di sfruttamento non è mai qualcosa di altro e diverso.

Proprio questo, al di là delle cadute di stile dei singoli, e le logiche da marketing che animano le loro azioni, è l’elemento che determina la divergenza tra noi e l’area degli ex disobbedienti ed una sempre maggiore insofferenza da parte di questi soggetti. La presenza radicata e coerente di un’alternativa alla propria modalità di azione politica, infatti, viene vista come un elemento di fastidio che rischia di svelare costantemente come dietro una fraseologia immaginifica quanto inconsistente si nascondano pratiche vecchie e con cui il movimento antagonista ha già fatto i conti negli anni precedenti. 


Alcuni esempi per capirsi

Una disamina delle esperienze di lotta in cui gli attivisti ex disobbedienti hanno svolto un ruolo significativo fa emergere in trasparenza questa attitudine che abbiamo appena descritto. È notorio, ad esempio, che a Vicenza per alcuni mesi vi è stata una presenza di attivisti provenienti da ogni parte d’Italia che hanno messo a disposizione oltre al personale politico (sempre spacciati come soggetti di movimento), strutture e soldi per sostenere la lotta puntando a conquistare l’egemonia di quella mobilitazione. Non c’è niente di male: ma diventa intollerabile quando questa prassi iperpartitica si accompagna ad una demagogia movimentista e all’esaltazione dell’autorganizzazione. Da subito si è insistito solo sul rifiuto di costruire la nuova base al Dal Molin, nonostante a Vicenza vi siano più basi presenti (soprattutto quella di Ederle da cui già partono le principali missioni militari per le aggressioni imperialiste). L’argomento principale usato è stato l’inopportunità della scelta del sito, che si andava a collocare in un area verde sottratta alla godibilità dei cittadini. In tal modo veniva messo in secondo piano la natura militarista di tutta la vicenda, la funzionalità della costruzione della nuova base ai progetti di ulteriore espansione imperialista.

Non a caso vi sono stati forti contrasti con altri settori di attivisti che chiamavano ad una opposizione a tutto tondo contro la presenza militare a Vicenza, compresa quella italiana. L’impostazione disobbediente era direttamente legata alla volontà di essere credibili e di coinvolgere tutti i soggetti possibili nell’opposizione alla costruzione della nuova base. Il fatto più grave non è tanto che tali spinte venissero da persone inesperte, ma che fossero proposte e sostenute proprio da quegli attivisti che in quella lotta erano intervenuti dall’esterno. Così, in nome della creatività, del nuovo modo di fare politica e del post ideologismo si è dato vita ad una variegata mole di iniziative che coniugavano mobilitazioni significative, con interlocuzioni con le istituzioni, a cominciare dal Sindaco. Si è promosso un referendum in cui si centrava il quesito sulla opportunità di costruire la base in un area verde utilizzabili per altre finalità sociali, si è ottenuto un incontro con il “Subcommitee on Military Construction, Veteran Affairs and related Agencies’ del congresso Usa”, si è accreditato un nuovo corso obamiano come se la nuova amministrazione Usa non avesse messo subito in chiaro di voler continuare nell’aggressione dell’Afghanistan….

Le stesse problematiche si sono manifestate nella vertenza di Chiaiano contro l’apertura della discarica. Anche in questo caso, pur in presenza di identiche vertenze e mobilitazioni attive su tutto il territorio campano da supportare, coordinare e generalizzare tutte in egual modo, gli attivisti di Insurgencia hanno scelto di “radicarsi” in questo quartiere vivendo con diffidenza ed ostilità la presenza di militanti non afferenti alla propria area di influenza e poco inclini a fare di Chiaiano la sola ed unica lotta contro la devastazione portata avanti in nome dell’emergenza. Stessa dinamica anche nella motivazione dell’opposizione: la pur presente critica al complesso della gestione della produzione e dello smaltimento dei rifiuti in Campania veniva via via soppiantata dall’insistenza sulla pericolosità dell’apertura di quella discarica proprio a Chiaiano, in un area densamente popolata ed adiacente al più grande complesso ospedaliero del Mezzogiorno. Non critichiamo naturalmente la messa in evidenza di tali scelte assurde da parte delle istituzioni, quanto la prevalenza data a tali motivazioni e la tattica del “prendere tempo” che, in particolare dopo la repressione di maggio scorso, davano spazio e supportavano proprio quella logica del minimo sforzo presente tra i tanti cittadini mobilitati, secondo cui l’opposizione al complesso del piano rifiuti ed alla generale militarizzazione del territorio rappresentava un obiettivo troppo ambizioso ed in fondo impraticabile, per cui molto meglio concentrarsi sull’obiettivo più a portata di mano di impedire l’apertura della discarica a Chiaiano.

Da qui lo stesso rapporto costruito con gli amministratori locali senza andare per il sottile nemmeno rispetto alla loro provenienza politica, accreditati, come a Vicenza,  come sponda sincera dei comitati. Nell’uno come nell’altro caso, queste modalità non hanno portato al rafforzamento delle lotte. Le mobilitazioni di Vicenza sono ben lontane dai numeri di solo un anno fa e per Chiaiano è ancora peggio. Eppure benché sia di tutta evidenza l’isolamento, la frammentazione e la sfiducia seminata dalla mancanza di risultati per questa via ottenuti (la discarica di Chiaiano è ormai aperta da mesi con la crescita dello sversamento della mondezza ed a Vicenza il cantiere della base lavora alacremente), si continua a bypassare sulle difficoltà di queste resistenze accreditando, invece, repubbliche liberate ed autorganizzate. In realtà, e purtroppo per l’intero movimento, i presidi resistenti sono ormai l’ombra delle comunità rappresentando presidi di attivisti e ben pochi affezionati.

In ultimo, tale attitudine si è riproposta nella vicenda del post terremoto in Abruzzo. Ancora una volta lo spostamento in massa (questa volta con le carovane di aiuti umanitari) di propri attivisti nella zona in cui mancavano propri insediamenti politici,  e la partecipazione ed il sostegno acritico a quelle che erano le strutture politiche create in loco a forte presenza PD, CGIL, Rifondazione Comunista. Pur di accreditarsi in questo ambito si è stati ben attenti a non criticare le impostazioni date al problema della ricostruzione e della militarizzazione del territorio, da esponenti politici del PD, che, dopo aver subito una mazzata di credibilità alla vigilia del terremoto per l’inquisizione di molti suoi rappresentanti, sono alla ricerca di una ritrovata credibilità in vista delle future scadenze elettorali.
Nella scelta di opporsi alla mobilitazione nazionale a L’Aquila questo elemento ha pesato in maniera decisiva, visto che questi esponenti politici della sinistra istituzionale erano fortemente motivati ad impedire qualsiasi contaminazione delle popolazioni locali con realtà di movimento portatori di una visione e di parole d’ordine nettamente più radicali non solo rispetto al G8 ma contro la gestione affaristica ed antiproletaria del dopoterremoto da parte del governo e della sua longa manus rappresentata dalla Protezione Civile. Pur di rendersi credibili agli occhi di questi personaggi gli si è tenuto bordone nelle diverse assemblee, fino a dare per buone eventuali violenze di non meglio specificati “irresponsabili” che si sarebbero precipitati a L’Aquila!
Ma questo è stato solo uno degli elementi che hanno pesato in questa scelta. L’altro, ben più ambizioso e indegno, era quello di affermare la definitiva scomparsa di un movimento antagonista su scala nazionale e di far emergere come uniche realtà di lotta i punti in cui si mantiene un proprio insediamento. In questo senso il commento al corteo de L’Aquila era già scritto! Questo è stato il motivo per cui per Vicenza si è lanciato una sorta di appello alla partecipazione nazionale mentre ciò non veniva ritenuto opportuno per la mobilitazione a L’Aquila.

Per noi la manifestazione di Vicenza era importante tanto quanto le altre iniziative territoriali contro il G8 che abbiamo sostenuto e considerate come tappe preparatorie di una grande appuntamento nazionale per dare visibilità ed efficacia alle ragioni della nostra opposizione sul piano generale ed unitario.
La strumentalità della proposta di mobilitazioni diffuse in alternativa alla manifestazione del 10 si è svelata per quello che era, visto che alle altre iniziative territoriali, come nel caso di Roma, a cui pure siamo stati presenti, gli ex disobbedienti non hanno partecipato.


Toh! I militanti pretendono il diritto di manifestare

Non è un caso che nella polemica contro chi ha deciso di manifestare a L’Aquila si è voluto etichettare quella manifestazione come composta prevalentemente da militanti politici, “custodi” dell’antagonismo, con allegato sventolio di bandiere rosse. Non vogliamo qui entrare nel merito di una sempre più incontrollabile avversione all’opzione comunista, degna dei peggiori conservatori, in nome di un nuovismo tanto vecchio. Ci limitiamo, per ora, al giudizio sulla manifestazione.
In tantissime occasioni gli ex disobbedienti si rendono artefici di azioni che vede protagonisti unicamente i propri attivisti senza nessuna relazione a qual si voglia movimento sociale e senza che ciò susciti scandalo se non per una eccessiva attenzione alla mediaticità che le caratterizza. Perché quello che vale per singoli gruppi che una volta si sarebbero definiti di propaganda ed alquanto avanguardistici non vale per mobilitazioni che al di là dei numeri si possono sicuramente definire di massa? Ma l’argomentazione lascia trasparire una logica di attivismo politico per noi assolutamente non condivisibile su cui è bene soffermarsi.
 
Ogni attivista parte nella sua scelta militante da una contrapposizione complessiva alle relazioni sociali capitalistiche dominanti. Egli, pur consapevole che tali relazioni possono essere distrutte solo dal coinvolgimento della stragrande maggioranza degli sfruttati e degli oppressi, non rinuncerà mai a manifestare nelle forme più adeguate ed opportune la sua opposizione; e questo non perché vuole rappresentare qualcuno o qualcosa, ma semplicemente perché trova intollerabile a cominciare dalla sua stessa esistenza quotidiana un sistema fondato sul sopruso e sull’oppressione dell’uomo sull’uomo. Se dovessimo aspettare sempre e comunque che si mobilitino le famose masse dovremmo rinunciare a mobilitarci su tematiche che non riguardano da vicino la condizione immediata di nessun lavoratore o proletario o su cui non si determinano movimenti.
 
I vertici del G8 rappresentano un classico esempio di una simile situazione. Anche quando vi sono stati numeri decisamente maggiori di soggetti scesi in piazza a contestare, almeno in Europa si trattava prevalentemente di attivisti politici e non certo di movimenti di massa oceanici. Bene, cosa è cambiato nel frattempo? A questo, in tutte le argomentazioni sollevate non troviamo risposte convincenti se non l’affermazione ….che tutto è cambiato. Per quanto ci riguarda la nuova fase aperta dal cambio di vertice nell’amministrazione Usa ha aperto una fase più concertativa tra le grandi potenze mondiali anche alla luce delle conseguenze della crisi a cui si cerca di costruire una risposta comune, e non certamente a favore degli sfruttati e dei più deboli. Sono perciò rafforzate le ragioni per manifestare la propria opposizione a tali vertici e avremmo fatto la manifestazione ritenendolo un passaggio irrinunciabile anche se avessimo dovuto fare una semplice squadra di propaganda.
 
La centralità di farla a L’Aquila dipendeva come già detto proprio dalla sfida lanciata dal governo contro gli attivisti no global e dargliela vinta su tale terreno avrebbe rappresentato un arretramento per tutto il movimento non solo italiano. Che gli ex disobbedienti facciano finta di non comprenderlo esprime solo il tentativo di giustificare la loro scelta irresponsabile.
 
Anche la scelta di far dipendere la tenuta della manifestazione dagli orientamenti di quelle che venivano pomposamente definite le comunità abruzzesi rappresentava un vero e proprio imbroglio. Non tanto e non solo perché i rappresentanti di tali comunità che abbiamo visto all’opera nelle assemblee preparatorie erano ceto politico con le mani ben in pasta nella gestione della cosa pubblica, ma soprattutto perché se non vi fosse stata la vicenda del terremoto nessuno si sarebbe sognato di interpellare queste famose comunità. La verità è che la stragrande maggioranza della popolazione abruzzese era sostanzialmente indifferente alla tenuta del vertice ed ha cominciato a preoccuparsi quando ha visto dirottare risorse da utilizzare per la ricostruzione verso la preparazione della kermesse internazionale, così come ha dovuto prendere atto che la gestione autoritaria già esistente dal dopo terremoto veniva intensificata con l’aggiunta di una ulteriore emergenza creata ad arte dal governo.
Tale indifferenza sarebbe stata la stessa prima del terremoto ma a nessuno sarebbe venuto in mente di far dipendere la proclamazione della manifestazione generale dallo stato d’animo degli abruzzesi. Del resto questo è vero anche per le mobilitazioni che facciamo nei nostri territori. Purtroppo, se dovessimo far dipendere le mobilitazioni che proclamiamo continuamente dallo stato d’animo delle popolazioni o dalle percentuali di un sondaggio d’opinione potremmo anche rinunciare a manifestare.
 
Sta di fatto che alla manifestazione hanno partecipato anche significative delegazioni di abruzzesi e che la mobilitazione stessa ha incrinato quel muro di criminalizzazione montato ad arte dai media.
Considerando il futuro che si prospetta per quelle popolazioni e le disillusioni cui andranno incontro rispetto alle promesse del governo, è prevedibile un maggiore loro protagonismo nel prossimo futuro e forse anche agli attuali detrattori locali sarà più difficile continuare a diffondere diffidenza verso chi, come abbiamo intenzione di fare, continuerà a stare a fianco delle popolazioni abruzzesi e continua a denunciare la gestione del dopoterremoto come un classico esempio di Shock Economy in cui si sperimentano misure che saranno generalizzate anche ad altri territori e ad altre “emergenze”.

Quanto poi alla supposta inutilità di manifestare contro il G8 poiché in questi vertici non si stabilisce niente di concreto, essendo prevalente lo scontro e la competizione tra grandi potenze, ci sentiamo di rispondere con una banale riflessione. Siamo tra coloro che non si sono mai bevuta la presunta novità epocale rappresentata dall’Impero che avrebbe sostituito il classico imperialismo trasformando il mondo in un universo liscio e privo di contraddizioni tra grandi potenze. Nel mentre cresce la competizione tra le grandi potenze della terra per ridiscutere la gerarchia imperialistica e per stabilire chi debba maggiormente appropriarsi della immensa ricchezza prodotta dal comune ed universale sfruttamento, le stesse grandi potenze in questi vertici, e non solo in essi, mettono a punto le strategie da seguire per rafforzare quello sfruttamento da cui traggono comune beneficio, per concordare le politiche di repressione e di contenimento contro le rivolte sociali che lo sfruttamento e l’oppressione di cui essi sono i rappresentanti politici provocano quotidianamente.

In questo non c’è sostanziale competizione ma massima collaborazione e concertazione. Per quanto ci riguarda quando scegliamo simbolicamente di contestare i vertici internazionali delle grandi potenze è esattamente questo il centro della nostra mobilitazione, perché si tratta delle poche occasioni in cui i potenti della terra si ritrovano altrettanto simbolicamente riuniti per esprimere la loro volontà di dominio sulla stragrande maggioranza dell’umanità. Forse lo capirebbe anche un bambino a condizione che abbia occhi per vedere ed orecchie per ascoltare.

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