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Sull’insostenibile leggerezza del G8 torinese

16 Maggio 2009

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Si ‘nce stess’ ‘o sfruttament’ stu sistema fosse bell’
Si teneva cinq’ pall ‘o nonn’ mio era nu flipper!
99 Posse, ‘O Sfruttament’
 
Dal 17 al 19 maggio, a Torino, alcuni rappresentanti dei paesi più “sviluppati” si riuniranno per un altro degli incontri preparatori in vista del G8 italiano di luglio, recentemente spostato a L’Aquila con danno e beffa delle popolazioni terremotate. Dopo i meeting di aprile sull’Agricoltura e sull’Ambiente, si tratta dunque dell’ennesimo vertice settoriale di questo G8 “a geometria variabile”, con appuntamenti disseminati su tutto il territorio nazionale e scansionati in diversi mesi.


Questa volta si parlerà di Università, e questo già suggerisce una prima riflessione. È infatti solo a partire dall’incontro di Sapporo del 2008, svoltosi all’interno del G8 di Hokkaido (Giappone), che il mondo accademico è entrato nelle attenzioni dei “grandi”. Come mai? Una risposta potrebbe essere ricercata nell’obiettivo di inglobare sempre di più, in questa fase di difficoltà, un settore che fino ad oggi era rimasto un po’ ai lati del ciclo produttivo. Una delle risposte storicamente date alla crisi è infatti la mercificazione di sempre nuovi settori della società, e l’adeguamento degli apparati di formazione alle esigenze sempre più pervasive e vincolanti del capitale. Non si tratta solo di “risparmiare” sui costi di Scuola e Università a discapito di quel minimo di formazione che esse sono in grado di fornire, ma di trasformare questi luoghi in centri di accumulazione attraverso la loro progressiva “aziendalizzazione”  e privatizzazione, così come è già avvenuto per altri settori.

Ma le cose non si possono dire così brutalmente. Ecco allora che il vertice di Sapporo introduce il concetto di “sostenibilità”, inteso come un nuovo, meraviglioso paradigma del XXI° secolo: la proposta di un capitalismo dal volto umano. Una strana “sostenibilità”, pronunciata con leggerezza, alquanto difficile da sostenere, visto che non taglia le emissioni industriali, punta a sviluppare il nucleare, i biocarburanti, gli OGM… Lo sviluppo si tinge di “verde”, senza per questo fermare la devastazione ambientale, ma aggravando gli squilibri fra i Paesi del mondo, le divisioni in classe, i meccanismi che fabbricano ogni giorno esclusione ed ingiustizia.


La proposta è insomma quella di un capitalismo senza sfruttamento dell’uomo e dall’ambiente, un capitalismo “a fini sociali”, che generi ricchezza senza estrarla dalla fatica dei lavoratori e dalla distruzione della natura. Si tratta di una pia illusione o una menzogna detta in malafede? Da questo punto di vista le parole dell’esimio Francesco Profumo, Rettore del Politecnico di Torino che ospiterà l’incontro, sono esemplari: “L’attuale crisi finanziaria va imputata anche alla debolezza etica nell’operare. Da qui parte un invito a investimenti che puntino alla formazione e alla ricerca ma in stretta connessione con il ruolo pubblico e sociale”. Peccato che la stessa Dichiarazione di Sapporo, da lui approvata, suggerisce che il “ruolo pubblico” dell’Università forse deve diventare un tantino più privato: La collaborazione con una varietà di portatori di interessi, inclusa la società civile e il settore privato, è altrettanto importante per garantire che tali soluzioni siano praticamente applicabili e appropriate per costruire una società sostenibile.

Insomma, il trucco è vecchio, anche se si cela dietro parole nuove: mentre si magnificano i valori della cultura e della scienza, si intende che il rapporto con il capitale privato è essenziale; mentre si dice che c’è un disastro economico e sociale da risolvere, si fortificano quegli organi che il disastro l’hanno creato. Mentre le università continuano a siglare collaborazioni con imprese belliche e multinazionali del farmaco o dell’alimentazione, le istituzioni accademiche si assolvono come “neutrali ed oggettive”, portatrici di conoscenze finalizzate ad un progresso armonico. E così il Rettore Profumo ci presenta l’Università come un “laboratorio per pensare al mondo del post-crisi”, un “laboratorio di idee e di nuovi atteggiamenti culturali di tipo sostenibile”.

Se dunque gli organi dirigenti delle università non si pongono come semplici esecutori di politiche decise in chissà quale luogo, ma essi stessi si pensano ed agiscono come “policy makers”, è perché un intero settore è ormai stato sussunto nella logica del capitale, perché il pubblico è diventato uno spazio di investimento e di profitto, che il privato può usare per ammortizzare i costi di formazione del suo personale e quelli di ricerca dei suoi prodotti… In un mercato della conoscenza sempre più profittevole e competitivo, si affida al Rettore-manager il compito di fare cassa, di vendere bene la sua merce, e magari di ottenere l’etichetta di “eccellente” se si mostra particolarmente disposto alle sollecitazioni imprenditoriali, o se elabora qualche buona soluzione per rilanciare i profitti. Ecco l’insostenibile leggerezza di questo G8, che farebbe quasi commuovere se non fosse di una stupidità criminale, di un’indifferenza ostinata di fronte al disastro globale. Se non fosse la malafede che si fa sistema, ed ammanta con una qualche scientificità le menzogne del potere.
La portata dell’attacco a diritti, che molti pensavano al riparo dalle mire del profitto, è dunque notevole, e lo sarà sempre di più a mano a mano che la crisi economica si acuirà, esasperando i processi di precarizzazione del lavoro e della vita. Il senso proprio della crisi non è infatti la “paralisi”, ma lo “snodo”, l’essere un momento di ristrutturazione complessiva. La repressione in questo senso ci offre un valido esempio: si interviene sia direttamente nel punire, sia preventivamente nell’evitare che nascano movimenti di contestazione. Attraverso cariche e denunce, linciaggio mediatico dei movimenti, incentivi espliciti o meno a quelle forze che compiono una repressione dal basso (ronde padane e bande fasciste), restrizione del diritto di sciopero e manifestazione, si tenta, in sostanza, di anticipare i possibili conflitti o deviarli, orizzontalmente o verso il basso.

Di fronte alla violenza del capitale, è difficile pensare che potremo difenderci e rilanciare “facendo diventare il movimento istituzione”. Difficile pensare che riusciremo ad organizzare una risposta duratura e significativa accettando i criteri di fondo con cui si è avviata la trasformazione della nuova università. Se siamo realisti, e vogliamo l’impossibile, diventa difficile sostenere che, ad esempio, l’attacco all’Università venga fermato da qualche controcorso retribuito in crediti. Pensare così è un’altra, insostenibile, leggerezza. E questo perché il credito non rappresenta una semplice opzione tecnico-organizzativa, ma è proprio la cifra, anche simbolica, della formazione che ci viene imposta. Quindi non può essere scardinato senza toccare tutto l’assetto che regola oggi l’Università. 

Il credito infatti è la misura del volume di lavoro di apprendimento, compreso lo studio individuale, richiesto ad uno studente in possesso di adeguata preparazione iniziale per l’acquisizione di conoscenze ed abilità nelle attività formative previste dagli ordinamenti didattici dei corsi di studio. È insomma una misurazione matematica del tempo di apprendimento: non importa l’acquisizione di un metodo, o una complessiva crescita culturale e personale, ma solo il riempimento di tempo “vuoto” con una serie di nozioni parcellizzate. Se dunque da una parte il credito formativo spinge ulteriormente in avanti il processo di mercificazione della cultura (si pensi alle vergognose convenzioni con corporazioni di ogni tipo, rese possibili proprio dall’introduzione del CFU), dall’altro contribuisce a creare uno standard di accesso al mercato del lavoro a livello europeo. Così, l’ipotesi di “inflazionamento” dei CFU è paradossale e segna un arretramento delle lotte: si dice di criticare il contenuto, ma non si tocca il contenitore. Piuttosto si collabora e legittima il sistema dei crediti, gli si conferisce credibilità presso gli studenti, e si portano, già nella fase della formazione, logiche baronali e di cooptazione, attraverso lo sviluppo di rapporti privilegiati con i docenti e con le autorità accademiche che devono riconoscere il “controcorso” (e che non hanno troppi problemi a farlo visto che, nel quadro di un assoggettamento totale dei percorsi curriculari alle esigenze del capitale, viene prevista questa valvola di sfogo: già la legge Ruberti del 1990 prevedeva attività formative autogestite dagli studenti; e la riforma Zecchino consentiva che una piccola percentuale dei crediti sia riservata ad attività formative autonomamente scelte…).

Per quanto lungo e difficile possa essere, l’unica posizione possibile e necessaria è quella di lottare senza ambiguità per l’abrogazione di tutte le “riforme”, assumendo un atteggiamento davvero conflittuale, e portando avanti iniziative culturali, incontri, davvero autogestiti; facendo tesoro del confronto orizzontale fra i soggetti mobilitati e quelli esterni alle università, come lavoratori, migranti, realtà di movimento. Non si tratta insomma di rinchiudersi nelle aule privilegiate del “sapere”, e di replicare in piccolo le lezioni frontali che già subiamo dai docenti, ma di rendere l’Università un luogo di transito per le lotte aperte nelle metropoli e nei territori. Perché l’Università non è solo degli studenti, è, o dovrebbe essere, di tutti, al servizio della collettività.

 

Per questo bisogna essere a Torino: per verificare la tenuta di un movimento studentesco che in autunno ha saputo esprimere un altissimo tasso di mobilitazione, per rilanciare la sua capacità analitica e pratica, per poter costruire nuovi e più forti momenti di mobilitazione e capitalizzare ciò che di positivo è stato fatto e discusso nei mesi scorsi. Torino può essere un’occasione per inserire nell’agenda del movimento studentesco contenuti che non limitino la sua azione ai ristretti confini nazionali e di “categoria”, ma che sappiano leggere la complessità del processo di mercificazione della società a tutti i livelli. Può essere, come gli ultimi controvertici di Londra, Strasburgo e Lovanio, il momento per far irrompere sulla scena globale la nostra rabbia e nuove forme di autorganizzazione e di antagonismo. E prepararci così ad un’estate e ad un autunno caldissimi…

Collettivo Autorganizzato Universitario, Coordinamento Studenti II Policlinico, Rete dottorandi e ricercatori delle Università di Napoli, Area Antagonista Campana, Cobas – Napoli, Red Link,  Movimento di lotta per il lavoro "Banchi Nuovi", Rete Campana Salute Ambiente

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