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Documento politico dell’assemblea nazionale del 13-14 dicembre 2008- Tor Vergata Roma

5 Gennaio 2009

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a cura di Red-Net rete delle realtà studentesche autorganizzate
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Il 13 e 14 dicembre
2008 si è tenuta all’Università di Tor Vergata un’assemblea nazionale di
movimento, nata da un’esigenza largamente condivisa da quei singoli e realtà politiche
che hanno attivamente preso parte, in questi mesi, alle proteste contro la
legge 133 e contro tutte le misure governative in materia di Scuola, Università
e Ricerca.

Dopo una prima fase di mobilitazione, in
cui l’agitazione spontanea è stata predominante, si sono infatti cominciate a
definire le rivendicazioni e a costruire le piattaforme politiche, entrando nel
merito delle tante questioni aperte dal movimento. In questa seconda fase ci
siamo resi conto che, condividendo punti di vista e prospettive, era necessario
socializzare i percorsi di lotta e le analisi politiche maturate negli ultimi
mesi e negli anni precedenti. Naturalmente quest’assemblea non ha rappresentato
che un primo passaggio, necessario ma non sufficiente: quello conseguente è lavorare
insieme per incidere in maniera efficace sul tessuto sociale e sulla realtà
quotidiana.

La due giorni di
intensi dibattiti si è articolata in due momenti di confronto assembleari
sull’autorganizzazione, e in due tavoli di lavoro plenari, che hanno affrontato
il rapporto fra “Scuola e Università, Capitale e Lavoro” e fra “Università e
movimenti sociali”. La prima necessità dell’assemblea è stata infatti quella di
fare il punto sulle varie esperienze di mobilitazione, e di portare avanti
l’analisi teorica in modo da strutturare meglio le proprie pratiche.

Non è quindi un caso che il perno della
discussione in tutte le assemblee sia stata la lettura della crisi
economico-finanziaria. Differentemente da tutti quelli che hanno sprecato fiumi
di inchiostro sostenendo che la “crisi” è solo “crisi della finanza”, noi siamo
convinti della necessità di ribadire che si tratta sì di crisi, ma di una crisi
di accumulazione capitalistica che viviamo da almeno trent’anni, e di cui la
recente deflagrazione finanziaria è soltanto l’ultimo, violento, momento di
svolta. I meccanismi di speculazione e indebitamento, che oggi vediamo
crollare, non sono infatti il prodotto di alcune “mele marce”, ma una delle
strade battute a partire dagli anni ’70 per sopperire alle difficoltà di
valorizzazione dei capitali. Mettere in discussione il capitalismo significa
quindi prima di tutto chiarire che non può esistere un lato ‘buono’ di un
sistema fondato su sfruttamento ed oppressione: finanza ed economia reale sono
due aspetti dello stesso modo di produzione. Condannare il capitalismo rapace
degli speculatori e delle banche, lasciando intendere che ve ne sia uno buono
da difendere, o uno “sostenibile”, significa mistificare la realtà, e cedere le
proprie armi critiche al nemico.

Per  tentare di uscire da questa crisi di
accumulazione, il capitale ha messo in campo diverse strategie: oltre alla
finanziarizzazione e al controllo dei fondi e delle politiche monetarie
attraverso organizzazioni transnazionali, è ricorso anche alla guerra globale e
allo sfruttamento massiccio dei paesi del Sud del mondo (sia delocalizzando lì
la produzione, sia abusando delle ingenti risorse naturali di quei territori).
I governi e gli imprenditori, con la collaborazione di finte opposizioni
politiche e il ruolo attivo dei sindacati concertativi, hanno poi attaccato
direttamente le condizioni di vita delle classi subalterne. Hanno tentato di
ridisegnare tutta la società, modificando alcuni aspetti fondamentali della sua
organizzazione: il ruolo dello Stato, il mercato del lavoro, il sistema
pensionistico, la sanità, i trasporti, incentivando lo scempio ambientale e la
privatizzazione di risorse quali l’acqua e l’aria. In questo modo hanno
limitato e depotenziato la conflittualità sociale, aperto incessantemente nuovi
spazi di mercato, suscitato ad arte nuovi, redditizi bisogni.

In questo vasto
processo di precarizzazione e sfrenata mercificazione, l’istruzione e la
ricerca non sono state risparmiate, ma riformate rispondendo all’esigenza di
costruzione di un’economia basata sulla conoscenza. È per costruire uno Spazio Europeo
dell’Educazione Superiore e della Ricerca (funzionale, insieme all’Esercito
europeo, all’aspra competizione sullo scenario mondiale) che i governi dei
paesi membri dell’UE stanno armonizzando i sistemi di istruzione, portando
avanti, pressoché ovunque, “riforme” di stampo neoliberista (si pensi alla
Francia, alla Spagna, alla Grecia). Indagare le connessioni che esistono tra il
sistema formativo, il quadro economico generale e le ristrutturazioni che
avvengono a livello europeo ci ha permesso di comprendere in che modo i
meccanismi di selezione di classe e di disciplinamento si sono evoluti e si
evolvono, proprio a partire da scuole ed università.

Da questo punto di
vista, l’introduzione del 3+2, di stage e tirocini obbligatori durante il corso
di studi, del sistema dei crediti formativi (CFU), il
nuovo ruolo dei privati negli atenei, il life-long learning, lo
smantellamento di ciò che resta del diritto allo studio (mense, residenze, borse
di studio), sono solo alcuni degli elementi concreti emersi durante la
discussione assembleare.

Il credito formativo è
stato uno dei punti dirimenti del confronto: la posizione “suggerita” dai
report della Sapienza (workshop del 15 novembre), ovvero l’abolizione del
sistema dei CFU attraverso un loro “inflazionamento”, è stata messa duramente
in discussione. Il credito è definito come la
misura del volume di lavoro di apprendimento, compreso lo studio individuale,
richiesto ad uno studente in possesso di adeguata preparazione iniziale per
l’acquisizione di conoscenze ed abilità nelle attività formative previste dagli
ordinamenti didattici dei corsi di studio (cfr. Decreto Ministeriale, 3 nov. 1999, n. 509). Non
è altro che una misurazione matematica del tempo di apprendimento (e non della
conoscenza) che ha contribuito all’ulteriore dequalificazione della didattica.
Esso racchiude la somma di lavoro che va dalla didattica frontale
(apprendimento formale), allo studio a casa, fino all’acquisizione di skill e dispositivi pratici sui luoghi
di lavoro (apprendimento informale). Non importa dunque l’acquisizione di un
metodo, o una complessiva crescita culturale e personale, ma solo il
riempimento di tempo “vuoto” con una serie di nozioni parcellizzate. Se dunque
da una parte il credito formativo spinge ulteriormente in avanti il processo di
mercificazione dei saperi (si pensi anche alle vergognose convenzioni con
corporazioni di ogni tipo che le Università hanno sottoscritto per fare cassa,
rese possibili proprio dall’introduzione del CFU), dall’altro contribuisce a
creare uno standard comune di accesso al mercato del lavoro a livello europeo.

Così,
l’ipotesi di “inflazionamento” dei CFU è paradossale e segna un arretramento
delle nostre lotte: si dice di criticare il contenuto, ma non si tocca il
contenitore. Piuttosto si collabora e legittima il sistema dei crediti, gli si
conferisce credibilità presso gli studenti, e si portano, già nella fase della
formazione, logiche baronali e di cooptazione, attraverso lo sviluppo di
rapporti privilegiati con i docenti e con le autorità accademiche che devono
riconoscere il “controcorso” (e che non hanno troppi problemi a farlo, visto
che nel quadro di un assoggettamento totale dei percorsi curriculari alle
esigenze del capitale, viene prevista quest’irrisoria valvola di sfogo: già la
legge Ruberti del 1990 prevedeva attività formative
autogestite dagli studenti; Zecchino
consente poi che una piccolissima percentuale dei crediti formativi sia
riservata ad attività formative autonomamente
scelte dallo studente – cfr. stesso
Decreto Ministeriale). L’autoformazione con i crediti è così
perfettamente compatibile con le esigenze dei poteri accademici e economici,
non li scalfisce, ma anzi li rafforza, svolgendo la funzione di moderare le
lotte.

L’unica posizione possibile e
necessaria è quella di lottare senza ambiguità per l’abrogazione del sistema
dei crediti, portando avanti iniziative culturali, incontri, dibattiti davvero
autogestiti e orientati in modo antagonista; non facendo tesoro di qualche
“lezione” calata da professori o da ricercatori in cerca di visibilità, ma del
confronto orizzontale fra i soggetti mobilitati e con soggetti esterni alle
università, come lavoratori, migranti, realtà di movimento. Non si tratta insomma
di rinchiudersi nelle aule privilegiate del “sapere”, ma di rendere
l’Università un luogo di transito per le lotte aperte nelle metropoli e nei
territori. Perché l’università non è degli studenti, è, o dovrebbe essere, di
tutti, al servizio della collettività.  

Bisogna quindi
anche mettere in questione tutte quelle proposte volte a sgravare lo Stato
dagli oneri del sistema formativo. Si pensi alla spinta pubblicitaria verso i
prestiti d’onore, che mirano a far acquistare allo studente il proprio “pacchetto
formativo”. Viene caldamente “proposto” allo studente di indebitarsi, per avere
la speranza che con la laurea trovi un lavoro ben remunerato, che possa
estinguere il debito contratto nei confronti del finanziatore (che può essere
una banca, ma anche un’azienda alla quale ci si lega fideisticamente). Così è
lo studente che investe su se stesso, con buone prospettive di finire
doppiamente ricattato: dal padrone a lavoro e dal “finanziatore” del prestito
d’onore. Un tale sistema (proprio come quello dei mutui “drogati”) è in crisi
persino negli stessi paesi dove è più radicato, e ha come principali
conseguenze l’esclusione sociale, la ricattabilità dello studente, il suo
indottrinamento forzato, la spinta a una competizione feroce con i suoi
compagni.

Anche i tentativi
di abolizione del valore legale del titolo di studio, supportati non a caso da
grandi multinazionali, vanno in questo senso. In generale l’obbiettivo del
capitale è quello di costruire da un lato un’Università di massa adeguatamente
dequalificata, dove si sfornano lavoratori a basso costo, esposti alla
precarietà, costretti a cicli di formazione continua e a pagamento (master,
corsi di specializzazione etc), che possano rappresentare un “esercito di
disoccupati” disperati e in competizione fra loro, e dall’altro lato di creare
invece pochi luoghi di formazione altamente selettivi in cui si forma la classe
dirigente solidale alle sue esigenze.  Da questo punto di vista l’“emergenza”, lo “spreco” e la
“meritocrazia” sono i paraventi ideologici con cui si cerca di veicolare
riforme che in effetti rafforzano proprio l’arbitrio baronale e la
dequalificazione dell’Università pubblica.

Per
questo motivo un altro punto cruciale sul quale si è concentrata l’attenzione
del movimento è quello della trasformazione delle università in fondazioni di
diritto privato. Una tale possibilità, che per molti atenei diventerà obbligo,
comporterà da una parte che l’ingresso dei privati nei dipartimenti diventerà
sempre più stabile, dall’altra che quei corsi di laurea che non rispondono a
“criteri di produttività” verranno tagliati limitando inevitabilmente la
libertà di studio nonché quella di insegnamento e ricerca. In generale, la
trasformazione delle università in fondazioni, che è l’estremo effetto della
privatizzazione (non si incide più con riforme curriculari o con una generica
collaborazione con soggetti privati, ma tagliando nettamente i fondi, e
costringendo dunque gli atenei a immettere al loro interno le uniche realtà
capaci di erogare liquidità), non farà che aumentare le molteplici
contraddizioni in cui l’università è inserita. Contraddizioni articolate su più
livelli: fra logiche baronali e politico-clientelari; fra le diverse cordate
d’interesse; fra il personale tecnico amministrativo e le dirigenze
accademiche; fra le masse sempre più numerose di studenti esclusi dai livelli
più alti della formazione e i meccanismi sempre più rigidi di selezione,
repressione e controllo; fra le aspettative professionali degli studenti che
completeranno il proprio percorso di studi e la loro crescente
dequalificazione; fra i capitali stessi, in competizione per assicurarsi corsi
di laurea favorevoli e “prestazioni d’opera vantaggiose”; fra Dipartimenti
Atenei, Centri di ricerca, in opposizione, contro il buon senso e le pratiche
di condivisione in uso fino a qualche decennio fa nella ricerca pubblica, per
la registrazione di un brevetto o per accaparrarsi una fetta più grande di
finanziamenti.

In
questo quadro gli stage ed i tirocini sono un altro aspetto del riassetto
dell’istruzione tutta, in funzione del mercato: acquisire conoscenze,
attraverso la pratica sul posto di lavoro, è considerato formativo per gli
studenti fin dalle scuole medie superiori. Ancora una volta, viene cancellata
persino la parvenza di una cultura critica e slegata da logiche
aziendalistiche: se da un lato parliamo di prestazioni di lavoro gratuite che
permettono, in molti casi, di abbassare i costi per il personale di università
e aziende non assumendo per gli incarichi coperti da stagisti, dall’altro il
costo della formazione dei soggetti in ingresso (prima integralmente a carico
dei privati) viene scaricato sulla collettività.  

Stage e tirocini si delineano,
quindi, come ulteriore ricatto per i lavoratori, in una fase in cui aumenta
giorno dopo giorno il numero dei disoccupati, dei cassa-integrati e dei
licenziati e in cui peggiorano visibilmente le condizioni di lavoro dello
stesso personale nelle scuole e nelle università: si pensi
all’esternalizzazione dei servizi, delle mense, delle biblioteche, che vengono
affidate a imprese appaltatrici o subappaltatrici le quali non applicano ai
lavoratori nemmeno le poche tutele tradizionali, e su cui il pubblico non ha
più alcun controllo (con conseguente aumento del costo dei servizi e
diminuzione della qualità).

Alla
questione della mercificazione dei saperi è strettamente legato il modo in cui
si configurano la didattica ed i suoi tempi nelle nostre aule: il voto, la
lezione frontale, i ritmi serrati delle lezioni, sono strumenti che non
permettono la fruizione di una cultura che possa realmente formare soggetti
critici, ma contribuiscono a riprodurre l’ideologia dominante di cui
l’università si fa portatrice. È per questo che non ci si può richiamare a cuor
leggero al Trattato di Lisbona o alla Carta europea della Ricerca: questi sono
piani per la costruzione di una ricerca funzionale allo sviluppo capitalistico
ed a essa subordinata, non certo per lo sviluppo di un sapere libero.

Da
questo punto di vista è importante ribadire come per “ricerca pubblica” non si
intenda una ricerca genericamente finanziata dallo Stato e non dai privati, ma
una ricerca che sia a beneficio della società. Una tale ricerca implica un
cambiamento radicale della nostra società, della sua organizzazione politica e
sociale. Oggi, anche laddove i fondi sono pubblici, la ricerca ha preso strade
che devono assolutamente essere contestate. Sono infatti pesanti le
responsabilità del mondo accademico nel prestarsi a fornitore di servizi per
l’industria bellica, finendo per essere un utile strumento al servizio delle
politiche imperialiste di guerra. E ancora, didattica e ricerca vengono oggi
finalizzate allo sviluppo di prodotti farmaceutici, chimici, informatici, che
saranno poi brevettati da quelle stesse aziende che ne ricaveranno profitti.
Nel campo delle scienze umane questo vuol dire sviluppare sistemi di analisi e
controllo, tecniche di promozione pubblicitaria, funzionali all’integrazione,
alla spettacolarizzazione, al disciplinamento di vasti settori sociali
potenzialmente conflittuali. Nel campo storico-letterario i condizionamenti dei
fondi nazionali ed europei permettono una riscrittura della storia e della
cultura a vantaggio delle esigenze attuali della classe dominante. 

Per
quanto riguarda il ruolo nella lotta dei dottorandi e dei ricercatori, soggetti
chiamati in causa in prima persona in questo processo di ristrutturazione
dell’Università e dello stato sociale, è per loro naturale, o dovrebbe esserlo,
trovarsi alleati agli studenti. Come questi ultimi, essi subiscono una
selezione di classe, che lascia a pochi la possibilità di andare avanti negli
studi e di permettersi lunghe “attese”; per di più essi soffrono anche quei
meccanismi di cooptazione e baronato che limitano la libertà della ricerca,
ancor più minata dall’ingresso dei privati, con la possibilità (non remota e
già presente in alcune facoltà scientifiche) che si ricerchi direttamente su
commissione.

È per
questo complesso di motivi che non si può parlare di “centralità del capitale
cognitivo” o di funzione trainante dell’Università all’interno delle lotte. Non
bisogna lasciarsi ingannare da formule demagogiche: da un lato bisogna
riconoscere che il lavoro cosiddetto manuale non ha avuto né il tempo né l’agio
di sviluppare teorie sulla sua centralità, anzi, è stato fatto sparire
dall’informazione e dal dibattito culturale, con la complicità proprio delle
elucubrazioni postfordiste; d’altro canto bisogna riconoscere che esso ha
sempre di più assorbito funzioni intellettuali (cfr. il problem solving
nei processi produttivi, a cui gli operai partecipano quotidianamente), mentre
il lavoro “cognitivo” è spesso basato su precise funzioni materiali (cfr. le
mansioni amministrative svolte da molti dottorandi e ricercatori). Nel rispetto
delle specificità e delle condizioni concrete di vita, bisogna notare che le
figure lavorative sono quindi inserite nello stesso ciclo produttivo: entrambe
concorrono alla valorizzazione delle merci, entrambe sono esposte a processi di
precarizzazione, entrambe vengono private di contratti collettivi nazionali e
dei diritti sociali (quali quelli alla casa, alla pensione etc). Le risposte
che il capitale ha dato alla sua crisi trentennale hanno tentato in ogni modo
di frammentare la classe, opponendo artificialmente il lavoro “cognitivo” al
lavoro “manuale”, offuscando i confini spesso molto labili che circoscrivono i
due ambiti, e cooptando il primo con privilegi di casta e fornendogli un certo status.
Per questo, anche se nel mondo della ricerca ci sono alcuni soggetti in attesa
di “inserimento”, o che potranno sempre trovare un remunerato impiego nelle
aziende, bisogna rilanciare una larga lotta unitaria fra i tanti che di questa
proletarizzazione e scomposizione di classe patiscono le conseguenze. 

Si è
così giunti a una riflessione più larga sulla connessione che bisogna
instaurare fra i diversi ambiti del conflitto sociale. La presenza di esponenti
dei movimenti territoriali è stata fondamentale per trovare il legame con le
lotte contro la devastazione ambientale e lo scempio territoriale. Non è un
caso che nella stessa legge 133/08 sono contenuti, oltre ai tagli
all’università, anche le misure di privatizzazione dell’acqua e i finanziamenti
per l’energia nucleare. È lampante il nesso che lega lo smantellamento
dell’istruzione e dello stato sociale all’attacco all’ambiente e ai territori,
soprattutto se si considera, ancora una volta, il ruolo che la ricerca svolge
(per volontà del pubblico o del privato) nella devastazione e nello
sfruttamento ambientale, e la funzione assolta dai partiti e dai sindacati
confederali (in continuità con i ben noti meccanismi clientelari, e spesso
persino in collusione con mafie e camorre) nel portare avanti logiche di
profitto.

Di fronte alla
crisi e al massacro che sta producendo, lavorare sulle contraddizioni,
iniziando a fare un discorso che miri dalle nostre università a costruire un
lavoro politico che non sia studentista o corporativo, ma abbia la forza di
collegarsi alle lotte di tutti gli altri settori che pagano questa
organizzazione economico-sociale è dunque una necessità. L’obiettivo di tutti i
partecipanti all’assemblea è dunque quello di lavorare nella prospettiva di un
confronto stabile tra lavoratori e studenti (che sono lavoratori in formazione,
lavoratori di oggi e di domani), assolutamente svincolato dalle pratiche
concertative di alcuni sindacati e partiti. Per questo motivo, è stato ritenuto
fondamentale proporre la costruzione di assemblee con altre realtà
autorganizzate non studentesche per provare a generalizzare realmente le lotte
e tendere col tempo ad allargare sempre di più i nodi del conflitto.

In conseguenza di
ciò, partendo dalle nostre specificità locali, abbiamo deciso di creare una
rete di realtà studentesche che abbia un respiro nazionale, ma che guardi anche
alle proteste che si sviluppano, contro le medesime riforme e attacchi, su un
piano internazionale. Intendiamo così coordinare in modo efficace le nostre
lotte e dare uno sbocco politico alle analisi condivise, dotandoci degli
strumenti più opportuni ed efficaci. Tra questi, abbiamo individuato un sito
internet, che funzioni come portale di collegamento nonché come mezzo di
comunicazione politica, punto di riferimento per quanti, quotidianamente,
lottano nella nostra stessa prospettiva. L’autorganizzazione, in questo senso,
è stata argomento centrale ed è emersa come caratteristica fondamentale per
costruire una struttura orizzontale che riesca a porre nell’agenda politica una
pratica realmente conflittuale e di classe. Per aprire da ora, e nei prossimi
anni, un lungo ciclo di lotte sociali. Per osare combattere, e osare vincere.

 Roma, 14 dicembre
2008

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