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FINO ALLA VITTORIA! Comunicati del FPLP

11 Febbraio 2009


 

SA’ADAT,
FPLP, PALESTINA:

LE RAGIONI DI UNA SCELTA

Collettivo Autorganizzato
Universitario

 Il 25 dicembre 2008, quando l’aggressione
israeliana alla Striscia di Gaza ed al popolo palestinese non era ancora
cominciata, giunse dalla Palestina la notizia della condanna di Ahmad Sa’adat,
il Segretario Generale del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina.

Sa’adat è, come tanti altri prigionieri,
l’incarnazione delle tragedie di questo popolo. Rifugiato dopo che l’esercito
israeliano ha raso al suolo il suo villaggio, nel 1967, a soli 14 anni, inizia
a militare nelle fila studentesche dell’FPLP. La sua vita politica è la storia
del popolo palestinese: martoriato, infangato, costretto alla violenza, poi
alla resa di Oslo, ma ancora capace di Intifada. Quando nel 2001 Abou Ali
Mustafa viene assassinato per mano sionista, Sa’adat diventa Segretario
dell’organizzazione. Fa paura, perché rispetto alla corruzione e
all’opportunismo della dirigenza dell’ANP è una persona onesta, sobria,
popolare. Fa paura, perché non gli si può applicare l’etichetta di
esaltato-fanatico-islamista: è una persona ragionevole, colta, che motiva le
sue verità.Subito Israele lo accusa di aver
organizzato l’assassinio di Rehavam Zeevi, Ministro del Turismo israeliano, ex
generale, uomo politico di estrema destra, il quale proponeva, senza farsi
troppi scrupoli, di deportare in massa la popolazione palestinese in Giordania.
Imprigionato nel gennaio 2002 dai collaborazionisti dell’ANP dopo un accordo
con Israele negoziato dagli statunitensi e gli inglesi, fu riconosciuto
innocente dalla Corte Suprema Palestinese. Ma l’ANP non lo volle rilasciare.
Solo nel marzo 2006 questa possibilità si fece concreta: allora gli israeliani,
d’accordo con gli imperialisti occidentali, assediarono il carcere di Gerico,
causando morti e feriti, e prelevarono di forza Sa’adat.

Quasi tre anni dopo, il 25 dicembre 2008,
la condanna a trent’anni: non per l’omicidio, indimostrabile, ma per l’
“attentato alla sicurezza d’Israele”. Trent’anni: una vita, una generazione
intera. Non si rida per il ridicolo dell’accusa: per uno Stato paranoico e
violento, che è nato da un crimine e che vede nella libertà e nella vita altrui
la schiavitù e la morte propria, qualunque resistenza, anche quella più umana e
giusta, diviene un pericolo intollerabile. Bisogna dunque cancellare questi
dell’FPLP, fanatici dell’uomo, che trovano ovunque alleati: anche fra gli ebrei
contro l’occupazione, anche fra gli occidentali di sinistra…

Se Sa’adat incarna la vicenda del popolo
palestinese, la notizia della sua condanna è una premonizione. Quasi come
l’annuncio, di qualche giorno precedente, della cacciata di Richard Falk,
professore universitario statunitense di sangue ebreo, delegato Onu per i
diritti umani, che aveva osato paragonare il trattamento che gli israeliani riservano
ai palestinesi a quello che i nazisti riservavano agli ebrei…

Il 26 dicembre, l’esercito israeliano
bombarda la Striscia di Gaza, vigliaccamente sostenuto dall’imperialismo
statunitense ed europeo, dai corrotti regimi arabi, dai media occidentali, e
dagli “equidistanti” e gli “umanisti” di ogni tipo. Un’aggressione spaventosa,
fatta di bombe al fosforo e armi non-convenzionali, durata 22 giorni,
conclusasi il 18 gennaio 2009 con più di 1.300 morti (di cui più di trecento
bambini!) e 5.000 feriti… Con il mondo che sta a guardare, con le polizie
arabe impegnate a sedare col manganello il malcontento dei fratelli in rivolta,
con i giornalisti italiani dediti a operazioni da regime, fino a far scomparire
mediaticamente una manifestazione che a Roma ha visto 100.000 persone
autorganizzarsi e scendere in piazza per far sentire la propria
solidarietà. 

Ora è il momento di cominciare una
riflessione. Per carità, non illudiamoci: questa tregua è una farsa. Il peggio
non è passato: non ha limite. Come prima del 26 dicembre, non contempliamo una
pace, ma un atroce assedio, una lenta agonia, fatta di embargo, fame, malattie,
disoccupazione. Riflettere non vuol dire qui fermare la propria azione, ma
aggiungere elementi al proprio sdegno. Magari portare la testimonianza di una
resistenza.

Di fronte a tutto questo dolore, allo
sgomento del lutto – eppure davanti a questa straordinaria voglia di lottare
del popolo palestinese, si dovrebbe infatti fare un passo indietro. “Noi che viviamo
sicuri nelle nostre tiepide case” dovremmo almeno avere un po’ di rispetto.
Prima di fare analisi campate in aria sull’epoca postideologica, sui rapporti
di Hamas con l’Iran, prima di esprimere il proprio “disagio” nello scendere in
piazza con chi, privato ormai di tutto, spinto ai margini dal razzismo e dallo
sfruttamento, invoca Allah, prima di mettersi a guardare, con superiorità da
occidentale, alla società palestinese, e proporsi di “contribuire alla sua
ricostruzione”, bisognerebbe far sentire il proprio calore e la propria
vicinanza. E poi bisognerebbe provare a sentire la voce di chi queste cose le
sta dicendo dall’interno di quel
conflitto.

Ecco cosa vuol dire solidarietà
militante: dare voce a chi non ha voce, ascoltare chi lotta ogni
giorno rischiando la vita. Muoversi con chi ci invita a colpire l’imperialismo
di casa nostra per alleggerire il suo peso, bloccando i rifornimenti di armi,
boicottando gli accordi economici dei nostri Stati con Israele, la ricerca
scientifica delle nostre università che rinforza l’esercito sionista.

Far sentire questa voce non vuol dire
aderire alla piattaforma o al programma di un’organizzazione. Vuol dire
semplicemente “essere capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia
commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo” (Che Guevara), e non
restarsene a speculare, ma trovare anche lì i compagni con i quali percorrere
questa dura strada che, con pazienza e tenacia, ci condurrà “fino alla
vittoria”.

Un’ultima nota: questi comunicati dell’FPLP
scontano le condizioni in cui sono stati scritti: condizioni di una guerra
impari, di un massacro in atto. Lo stile è affrettato, gli imperativi decisi:
si tratta di far sentire forte il proprio grido a tutti i compagni. C’è poco da
sottilizzare: quando le bombe cadono, agitazione e propaganda. Ma c’è
anche, fra le righe, il ricordo di un compagno ucciso, di un agguato sventato,
la frenetica attività che avrà contraddistinto i nostri fratelli palestinesi
nel tentativo di respingere l’ennesimo, sanguinoso attacco sionista.

A una lettura superficiale, a chi ci cerca
raffinate analisi, questi comunicati possono sembrare ripetitivi o, peggio,
autocelebrativi. Ma li legga chi vuole trovare in essi tutta la forza di un
popolo che non ha smesso di lottare, l’orgoglio di chi non china la testa, di
chi ha il coraggio di non fare affidamento in nessun Dio per portare avanti la
propria quotidiana resistenza.

C’è qui tutta la potenza di una voce che,
ormai da sola, dice ciò che sembra impossibile, che sessant’anni di oppressione
hanno reso impensabile, ma che continua a essere la soluzione più umana e
giusta, quella più ragionevole e rispettosa di ogni differenza: uno
stato solo per tutti, laico, democratico, socialista.

Perché senza giustizia non ci potrà essere
pace in Medioriente, né altrove.

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