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CRISI E ARCHITETTURA SECURITARIA: verso il G8 dell’Aquila, dopo Treviso e Siracusa, passando per Torino

4 Maggio 2009

 a cura di RED-NET rete delle realtà studentesche autorganizzate

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Continua la passerella dei vertici internazionali: dopo l’appuntamento di Londra del G20 e quello NATO di Strasburgo, è il turno dell’Italia, che ospita nuovamente il G8 dopo le giornate di Genova del 2001. Un incontro che non a caso viene organizzato secondo una “geometria variabile”, con appuntamenti settoriali disseminati su tutto il territorio nazionale e scansionati in diversi mesi.
Così, fra il 18 ed il 23 aprile, a Treviso e a Siracusa si sono svolti, rispettivamente, i vertici sull’Agricoltura e  sulll’Ambiente. Vertici particolarmente significativi perché hanno visto anche la presenza di “stati osservatori” (fra i quali Cina, India, Brasile, Indonesia, Egitto) e di alcune organizzazioni internazionali. Questi ultimi appuntamenti hanno messo in evidenza due aspetti sui quali è necessario ragionare se si vogliono tenere insieme e rendere più incisive le nostre lotte: la centralità della crisi, con i suoi mascheramenti ideologici, e la stretta repressiva sui movimenti.

 

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Innanzitutto, sia al G8 Agricoltura che al G8 Ambiente la crisi è stato l’elemento caratterizzante tutti i tavoli di lavoro. Ovviamente non si è persa occasione per riproporre la versione ufficiale secondo cui la crisi sarebbe solo finanziaria, congiunturale, dovuta in buona parte alla speculazione di attori troppo ‘disinvolti’ sui mercati internazionali. “L’Italia, in questo contesto, ha il compito di presiedere e indirizzare una discussione approfondita, che tenga conto della grave crisi economica che attanaglia la finanza mondiale, ma che possa trovare nuova linfa nell’unione di più soggetti, nel coordinamento degli interventi e nella condivisione degli obbiettivi”. È con queste parole che il Ministro Prestigiacomo ha aperto i lavori di Siracusa, dichiarando che un lavoro coordinato, volto ad una ‘moralizzazione’ dei mercati, l’imposizione di regole certe capaci di condurre a più miti consigli gli speculatori, possano rappresentare una qualche soluzione. In realtà, questa crisi non è congiunturale e non è soltanto finanziaria, non è legata “alla mancanza di regole”, né alle “effrazioni” d’un immaginario codice deontologico degli operatori: siamo piuttosto di fronte ad una crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, una crisi che ha origini lontane e che non è affatto separata dall’economia reale.



Una crisi di dimensioni impressionanti, che ha evidentemente anche delle conseguenze ambientali e alimentari. Sono le contraddizioni e gli squilibri di questo sistema ad aver portato, ad esempio, un’impennata rapidissima dei prezzi dei prodotti agricoli, che va a danno dei lavoratori salariati delle campagne e delle classi subalterne delle metropoli. Ed è la stessa ricerca disperata di profitto a spingere i paesi Occidentali (USA in primis) verso l’utilizzo dei bio-carburanti. Da questo punto di vista, il documento finale del G8 di Treviso mostra le contraddizioni fra i paesi del “centro” e quelli della “periferia”: mentre i primi affermano che “le politiche dovrebbero incoraggiare una produzione e un consumo di bio-carburante sostenibile per l’ambiente”, i paesi dell’America Latina, riuniti nell’ALBA, hanno già smascherato le effettive conseguenze di questa presa di posizione apparentemente ‘ambientalista’, affermando che “generalizzare l’uso di bio-combustibili può incidere solo negativamente sui prezzi degli alimenti e sull’utilizzo di risorse essenziali come l’acqua, la terra e i boschi”. Inutile dire che l’introduzione dei biocarburanti è funzionale a ridurre la dipendenza occidentale dal petrolio d’importazione entro il 2017, diminuendo così i legami con l’area mediorientale – sempre più difficile da gestire – e cercando di mettere in ginocchio i paesi sudamericani che hanno osato ribellarsi a Washington.

Questi recentissimi esempi ci dimostrano come i vertici internazionali nascano proprio come tentativo di gestire un’economia sempre più globalizzata ed integrata, ma sempre più incapace di generare profitti. Una difficoltà di accumulazione che è riscontrabile sin dall’inizio degli anni ’70, e che ha costretto i governi degli stati più ricchi, emanazioni delle borghesie nazionali, a creare ed a rafforzare alcuni organismi sovranazionali, come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, dotandoli di una significativa capacità di coordinamento e di poteri vincolanti.



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L’altro tratto caratterizzante i vertici che si stanno susseguendo è la sempre maggiore volontà politica da parte dei Governi di reprimere e delegittimare ogni forma di resistenza e di protesta. Gli ultimi mesi hanno visto infatti una considerevole ripresa delle contestazioni di questi incontri, identificati non solo come semplici ‘appuntamenti’, significativi per ostentare un dissenso ideologico alle politiche neoliberiste, ma come occasioni per l’irruzione sulla scena di un malcontento popolare e di nuove forme di autorganizzazione. Da questo punto di vista, le manifestazioni di Londra e Strasburgo di inizio aprile potrebbero essere il sintomo più diretto dell’impasse del modello capitalistico. In entrambi i casi c’è stata una forte risposta repressiva: in Gran Bretagna l’uso delle truppe anti-sommossa ha portato ad un morto e decine di feriti, in Francia a centinaia di arresti. Questa reazione sembra essere indice di una paura ed incapacità di governare – in termini di consenso ed ordine pubblico – i contraccolpi della crisi.



In effetti, la gestione della “pubblica sicurezza” in occasione dei Summit appare sempre più l’effetto di una pianificazione a livello europeo: mentre le unità di polizia dei differenti paesi conducono addestramenti comuni ed operazioni coordinate, si organizzano nuove istituzioni di controllo e finanche programmi di ricerca scientifica. Nel 2004, dopo le contestazioni del Movimento No-global, è stato avviato dall’UE il programma di ricerca “Coordinating National Research Programmes on Security during Major Events in Europe”. EU-SEC si occupa del coordinamento delle Autorità di Polizia degli Stati Membri e dell’Europol e figura, fra l’altro, come curatore di un manuale per la gestione di contestazioni dei Summit. In questo manuale, si consigliano alle Polizie il monitoraggio dei movimenti di protesta, lo scambio di dati, l’emanazione di divieti di trasferta e la realizzazione di strategie di offensiva mediatica utili alla delegittimazione della contestazione.



Insomma, tutti ‘consigli preziosi’ per le forze dell’ordine; tutti consigli che hanno una ricaduta immediata sulla realtà. La deriva autoritaria alla quale stiamo assistendo in Italia non è dunque il prodotto di una serie di soluzioni applicate volta per volta, emergenzialmente, ma una scelta organica. “L’Europa può diventare produttrice e non solo consumatrice di sicurezza. UE e NATO, però, devono integrarsi, non sovrapporsi. Riprenderemo questo ragionamento all’interno del G8”. Questa è la dichiarazione del ministro Frattini, già ex commissario europeo per gli “Justice and Home Affairs”, in preparazione del vertice.



D’altronde, dal punto di vista della repressione e delle politiche securitarie, l’Italia non è seconda a nessuno. Sia sul fronte esterno (vedi politiche contro l’immigrazione, e il pattugliamento delle coste della fortezza-Europa), sia sul fronte interno (denunce e processi, cariche delle forze dell’ordine, linciaggio mediatico dei movimenti, incentivi espliciti o meno a quelle forze che compiono una repressione dal basso – ronde padane e bande fasciste -, restrizione del diritto di sciopero e manifestazione) è assolutamente all’avanguardia. Non a caso l’Italia ospita l’“Osservatorio permanente per la sicurezza durante i grandi Eventi” (IPO), con sede a Torino. Attraverso tutti questi sistemi si tenta, in sostanza, di anticipare i possibili conflitti o deviarli, orizzontalmente o verso il basso.



È un esempio tangibile di quanto detto finora ciò che è accaduto ai compagni che da Napoli erano diretti al contro-summit di Siracusa: il pullman sul quale viaggiavano è stato più volte fermato ed è stato chiesto ai passeggeri di esibire i documenti (ovviamente non consegnati). Inoltre, anche alcuni compagni  di Palermo, diretti a Siracusa per manifestare il loro dissenso nei confronti dell’establishment mondiale, sono stati fermati lungo il tragitto, identificati e trattenuti in caserma. La stessa cittadinanza siciliana è stata esposta ad una violenta campagna diffamatoria volta a presentare i manifestanti come barbari venuti a distruggere tutto.


La stretta repressiva sui movimenti non si manifesta solo attraverso strumenti di controllo diretto: le stesse modalità organizzative del G8 di quest’anno, con più mini-incontri disseminati su diversi territori, rappresentano una risposta preventiva a chi vede nei vertici internazionali momenti di verifica e di visibilità del lavoro politico portato avanti quotidianamente. Il Governo ha scelto così di svolgere i Summit in zone distanti dalle metropoli, difficilmente raggiungibili e fortemente militarizzate. Per il movimento la difficoltà di individuare un luogo fisico in cui concentrare la protesta è stato motivo di dispersione. 



Altro discorso merita la scelta dell’ultim’ora di trasferire il G8 all’Aquila: una scelta che ha pesanti ricadute a livello mediatico, che impone al movimento di gestire bene tutte le fasi della preparazione del contro-summit, senza farsi intimidire dalla propaganda fabbricata ad hoc, attraverso la quale si cercherà di criminalizzare chiunque pensi di manifestare. Delegittimando in anticipo chi vede nelle prossime mobilitazioni la possibilità di porre i temi della conflittualità e dell’autorganizzazione sociale all’ordine del giorno, di rendere finalmente visibili  tutte quelle istanze che fino ad oggi sono state forzatamente confinate nel perimetro ristretto delle fabbriche, dei call-center, delle università…


Crisi e deriva securitaria sono i sintomi tangibili del fallimento del capitalismo e della sua necessità di ristrutturarsi in forme ancora più inique per cercare di sopravvivere. Di fronte a tutto ciò, i movimenti non possono rimanere inermi. L’inasprimento del clima repressivo non può e non deve porsi come un limite, anzi deve fungere da sprone per la creazione di una ferma e decisa opposizione alla governance globale in vista dei prossimi appuntamenti di Torino e dell’Aquila.




Rilanciamo la lotta: verso il G8 University Summit di Torino




Probabilmente le date più calde del G8 non sono ancora arrivate e forse il movimento in Italia sconta un colpevole ritardo: sicuramente l’University Summit che si terrà a Torino tra il 17 ed il 19 Maggio è un appuntamento importantissimo. Innanzitutto è un momento di verifica e di rilancio: di verifica di un movimento studentesco che in autunno ha saputo esprimere un altissimo tasso di mobilitazione, occupando le Università, le scuole e le piazze di tutta Italia; di rilancio perché questo ha bisogno di fare un passo in avanti, di politicizzarsi e organizzarsi, per poter costruire nuovi e più forti momenti di mobilitazione e capitalizzare ciò che di positivo è stato fatto e discusso nei mesi scorsi.

Perché da Sapporo 2008 il G8 ha inserito nella sua agenda anche il tema dell’Università? La volontà di formalizzare la gestione globale dell’università costituisce di fatto un salto di qualità rispetto ad un processo di sfruttamento e di mercificazione della cultura già in atto da tempo.
Benché non si possa sostenere che le indicazioni definite nei vari G8 vengano applicate uniformemente in ogni paese, attraverso l’analisi delle differenti politiche possiamo definire un quadro e una linea di tendenza generale. È quanto succede nei vari paesi dell’Unione Europea, con una riforma epocale dei percorsi formativi, una riforma che, per quanto possa essere eseguita con velocità differenti, è incanalata nelle tappe serrate del Processo di Bologna, che prevede una maggiore cogenza dei curricula, l’ingresso dei capitali privati, l’introduzione di stage, la proliferazione di contratti di ricerca a tempo determinato, la sostituzione progressiva delle borse di studio con prestiti da parte dei privati, un maggiore controllo sulla ricerca da parte di Rettori-manager, etc. In Italia, inoltre, la riforma avviata col Processo di Bologna si è innestata in un percorso iniziato con la legge Ruberti sull’autonomia finanziaria degli atenei del 1989.


 


È per questo motivo che l’appuntamento di Torino acquista per noi un rilievo fondamentale: è un occasione per inserire nell’agenda del movimento studentesco contenuti che non limitino la sua azione ai ristretti confini nazionali ma che sappiano leggere la complessità del processo di mercificazione della cultura e, soprattutto nel caso italiano, di attacco all’istruzione pubblica a tutti i livelli.

Questa crisi la stiamo pagando cara, con licenziamenti e casse integrazioni, con una maggiore ricattabilità, con i tagli alla spesa sociale, con il generale peggioramento delle condizioni di vita, con riduzione degli spazi di agibilità politica, con manganellate, denunce e processi… Ma stiamo lavorando per il riscatto: oltre il misero quadro politico istituzionale, per dare una direzione conflittuale alla frustrazione, all’alienazione e allo sfruttamento vissuto dalle classi subalterne del nostro Paese e nel mondo intero! 
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