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Dall’Italia ad Haiti passando per Madrid…

23 Giugno 2009

 

L’OCSE, L’ITALIA E LA SCUOLA DI CLASSE
 
Negli ultimi giorni l’OCSE, una delle più importanti organizzazioni sovranazionali del capitalismo, si è divertita a sfottere l’Italia. Prima ha constatato che le stime di “crescita”– o di “decrescita”, sarebbe meglio dire, visto che siamo a -5,3% del PIL – erano da rivedere al ribasso, poi ha sostenuto che la ripresa arriverà più tardi del previsto, e sarà comunque debolissima (parliamo del +0,4% nel 2010), poi che la disoccupazione quest’anno continuerà a salire fino al 10%, con un debito pubblico fino al 120%… Il tutto corredato da calo dei consumi, degli investimenti e del commercio estero. Poi, per farsi due risate, l’OCSE ha aggiunto: “tutte le previsioni sono soggette a una forte incertezza”. Insomma, può andar peggio. L’incertezza però non gli impedisce di consigliare la ricetta su misura per noi: ricapitalizzare le banche, fare riforme strutturali per aumentare la competitività, un bel giro di vite sulla pubblica amministrazione…


Cos’è che di sta storia fa ridere, se non facesse piangere? La smania con la quale il centrosinistra ed il centrodestra rivendicano la loro adesione ai dettami neoliberisti. Mentre l’opposizione accusa il Governo di non aver fatto le famose liberalizzazioni, il Governo usa il rapporto per dire: l’emergenza c’è, quindi bisogna riformare, intervenire, spezzettare. Il caso della Scuola è eclatante. L’OCSE ha messo gli istituti superiori italiani in coda alla sua personale classifica. La Gelmini se la ride: abbiamo ragione! Dobbiamo tagliare il personale. Ridurre le ore di lezione. Misurare le performance di presidi e docenti. Spingere sull’autonomia degli istituti scolastici. Chiuderli, persino! E dare un bel bonus alle famiglie per mandare i figli alle scuole private…


Cosa c’entrino queste scelte con il rapporto è tutto da capire. Persino l’OCSE – il cui obbiettivo, sia chiaro, è educare i ragazzi alla competizione e al nozionismo, secondo dispositivi standardizzati che potranno renderli lavoratori obbedienti e produttivi – dice che le differenze di “performance” fra gli studenti sono attribuibili a condizioni materiali (come la regione d’appartenenza ed il reddito familiare). Persino l’OCSE si propone compassionevolmente di “contenere il gap educativo fra Nord e Sud […] per ridurre le differenze economiche e sociali complessive” e di “recuperare le scuole e gli studenti più deboli, specialmente quelli a rischio abbandono”.


Ma non è finita qui. Proprio oggi il Ministero decide, secondo una pratica inusuale, di anticipare i numeri dei bocciati (oltre 370.000) e dei non ammessi alla maturità (oltre 25.000). Con il chiaro intento di orientare gli insegnanti ancora alle prese con gli scrutini, la Gelmini minaccia il pugno di ferro e manda a dire che la Scuola deve essere rigorosa. Peccato che tutti i pedagogisti prendano come paradigma dell’insuccesso dell’intero sistema proprio la cosiddetta dispersione scolastica: bocciature, evasioni e abbandoni.


Su una cosa però la Gelmini ha ragione: “questa scuola prepara i ragazzi alla vita”. È vero: è una scuola che rispecchia perfettamente la società italiana. Una scuola di classe, dove l’ingresso è deciso dal quartiere di appartenenza, le amicizie dalla marca dei vestiti, i risultati garantiti dall’aiutino delle lezioni private. Una scuola che penalizza il Sud, gli istituti tecnici. Dove il bullismo si svela come l’arroganza del più ricco e del più forte, oppure lo sfogo disperato di ragazzi che sentono di non aver nulla da perdere, nulla da fare, nulla da imparare, perché comunque quella parentesi subita 5 ore al giorno non ti porterà da nessuna parte. Una scuola in cui la “cattiva condotta” (sulla cui definizione ci sarebbe molto da dire) non viene compresa nelle sue origini sociali, ma cattolicamente attribuita, come fosse colpa morale, all’indole del ragazzo.


Da parte sua il centrosinista si limita a constatare che tanti ragazzi che restano negli istituti costano allo Stato tre miliardi in più. Perché non promuoverli allora, infischiandosene di cosa vadano mai a fare con un titolo sempre più squalificato, senza alcuno strumento critico-culturale, in tempi come questi? Strano che Alfano abbia dichiarato proprio oggi che si stanno costruendo nuove prigioni…


Ora, le considerazioni sarebbero tante. La prima intorno al ruolo dell’OCSE e degli organismi sovranazionali che dettano le politiche mondiali. E questo ci porterebbe direttamente alla contestazione del G8 dell’Aquila, come il luogo di gestione e sintesi (per quanto precaria) delle diverse azioni ultra/neo/iperliberiste. La seconda considerazione verterebbe invece intorno alla mancanza di rappresentanza politica dei lavoratori, degli studenti e delle classi sociali più deboli: quale partito o sindacato decide di opporsi a queste direttive? Quale le contesta frontalmente? Ecco un invito a sviluppare i sentieri di autorganizzazione, di contestazione radicale che abbiamo cominciato a percorrere quest’autunno in modo trasversale, fra studenti-lavoratori-genitori-insegnanti…


La terza considerazione, e le altre, preferiamo non farle. Perché lasciamo la parola a chi a Milano, qualche giorno fa, ha saputo esprimere un sentire diffuso, contestando e mandando via Gelmini. Sono stati subito chiamati “talebani” e “fascisti rossi”. Noi speriamo ce ne siamo molti, di questi “rossi”, per opporsi ai veri fascisti e ai veri buffoni in ogni scuola e facoltà… In ogni caso, saremo fra quelli!

 

Su CAU-Channel il video della contestazione alla gelmini a Milano
 

 

 
A MADRID GLI STUDENTI OCCUPANO IL MINISTERO DELL’EDUCAZIONE

Il 19 giugno 2009, in occasione del decimo anniversario della adesione dello stato spagnolo al Processo di Bologna, un gruppo di studenti ha occupato simbolicamente il Ministero dell’Educazione di Madrid per ribadire la propria contrarietà a questo progetto di trasformazione dell’università. L’azione è stata organizzata da membri di assemblee e collettivi di diversi atenei dello stato spagnolo che, grazie ad una serie di incontri di livello statale realizzati fino ad oggi, stanno raggiungendo una certa unità di intenti e di pratiche. Gli studenti sono riusciti a penetrare nell’edificio del Ministero e ad esporre sul marciapiede antistante uno striscione che recitava: “Decimo anniversario del Processo di Bologna. Non uno di più! Continuiamo a lottare!”. In seguito hanno distribuito ai passanti il volantino che riportiamo in allegato.

La giornata è servita per riportare l’attenzione sulla prossima implementazione dello Spazio Europeo dell’Educazione Superiore anche nello stato spagnolo. Ancora una volta gli studenti hanno voluto sottolineare la totale assenza di informazioni e confronto a proposito delle singole misure che entreranno in vigore nonché della direzione generale su cui l’università va incamminandosi. A forza di cortei, conferenze, assemblee e referendum il movimento studentesco dello stato spagnolo è riuscito a configurarsi come soggetto politico che mass media e governo non possono ignorare. E così questi ultimi hanno risposto alle rivendicazioni studentesche rispettivamente con la criminalizzazione e con la repressione. Arresti, espulsioni, mistificazioni, processi mediatici, provvedimenti disciplinari e violenza poliziesca si sono ripresentati costantemente nei mesi. Tutto ciò non è bastato a tacitare il dissenso né ad impedire che venissero adottati strumenti quali le occupazioni o il picchettaggio delle università, sempre criminalizzati da giornali e telegiornali. Né sono servite le accuse di essere una “minoranza”, grazie anche ai risultati piuttosto positivi (in termini di consensi e di partecipazione) dei referendum organizzati dagli studenti in diversi atenei, che hanno permesso di rovesciare totalmente l’accusa.

 

Contro l’Europa del capitale e la mercificazione delle nostre vite!
No al Processo di Bologna!
Contro il Processo di Bologna non un passo indietro!

 
Fonte: http://www.rompamoselsilencio.net/?Madrid-Las-asambleas-contr
 

di seguito il testo del volantino distribuito durante l’azione simbolica al Ministero dell’Educazione di Madrid

Manifiesto acción simbólica en Ministerio de Educación
19 de junio de 2009

 

Hoy se cumplen diez años desde que el Estado Español suscribió con su firma la Declaración de Bolonia, dando el pistoletazo de salida oficial a la implantación del Espacio Europeo de Educación Superior. La lucha contra Bolonia no surge en el curso actual: se remonta a las luchas contra el Informe Bricall (1999) y la LOU (2001). Estos textos ya tenían como referente el Espacio Europeo de Educación Superior (EEES) y se dieron a conocer unos años más tarde de que salieran a la luz los acuerdos (GATT y AGCS) de la Organización Mundial del Comercio (OMC) para la liberalización de los servicios públicos, como la educación y la sanidad. Después de estos diez años de manifestaciones constantes contra los preceptos, las bases y los intereses que dan vida a la reforma y reclamando el debate público sobre un tema de vital importancia como son la universidad y la educación, por ser los espacios sociales donde se gesta la reproducción social, con la trascendencia que dicho aspecto tiene, las respuestas por parte de las instituciones gubernamentales continúan siendo las mismas: primero ejercen la imposición y cuando la resistencia se hace fuerte practican la otra cara de la misma moneda: la represión del movimiento estudiantil (detenciones de estudiantes, imputaciones, expulsiones, criminalización de las asambleas de estudiantes, denuncias, presiones…con más de 100 estudiantes pendientes de juicios por defender una universidad crítica y liberada de la lógica mercantil).

 

A día de hoy, continua la dinámica de trabajar a espaldas de la sociedad. Todo tipo de documentos oficiales –como el nuevo estatuto del PDI, el funcionamiento real de los grados, cómo afectará realmente la implantación a las/los estudiantes que empiezan o que tendrán que adaptarse al plan nuevo, cómo se traducirá a efectos prácticos, cómo será realmente el nuevo sistema de becas –continúan saliendo a la luz, llegando a la comunidad universitaria, una vez se han tomado todas las decisiones al respecto, de forma unilateral, sin dar opción al diálogo o a la construcción conjunta. Así una vez más, se pone en evidencia el autoritarismo imperante y la falta de democracia que hay en el ámbito universitario, pero que es una constante en todas las políticas públicas que se implantan. Decimos bien alto que toda la información, así como el debate público abierto en la calles, y en la sociedad en general, han sido fruto del trabajo de las/los estudiantes y profesores con acciones como debates, charlas en institutos, en locales de barrio, manifestaciones, escritos, referéndums, programas de TV dónde las autoridades tenían miedo de ir, la ocupación de espacios simbólicos para abrirlos a la sociedad. Pero nunca desde dichas instancias gubernamentales.

 

Hechos como no acceder a la entrevista con la asamblea estatal de pdi-pas, por parte del Ministro, derivándola a su secretario Màrius Rubiralta, son una muestra de la falta de voluntad política de querer resolver el conflicto. Asimismo, es una muestra de falta de respeto hacia los colectivos y estamentos directamente afectados como lo es la dicha asamblea.

 

Este tipo de actitud no es algo nuevo. Se repite y se hace patente cada vez que miles de estudiantes piden la paralización del proceso y son calificados de minoría. En este sentido, el hecho de no reconocer las asambleas de estudiantes como movimiento de base y representación estudiantil y tampoco a la comunidad universitaria de base, es una muestra clara de abuso de poder, autoritarismo e imposición. Las asambleas, el boicot y los piquetes son nuestra legalidad; los discursos mediáticos, las porras y la falta de alternativas a la democracia capitalista es la suya. Aquellos profesores, políticos y sindicalistas que en su momento decían que estaban en contra de la LOU, ahora son los que ordenan desalojos y cargas policiales.

 

Denunciamos una vez más, que los distintos mecanismos utilizados como la convocatoria de referéndums, campañas de voto nulo, participación en las juntas o en los claustros han demostrado que sólo se reconoce la legalidad cuando ésta está del lado del poder y sus intereses. Pero no se reconoce cuando a través de los mismos mecanismos se pone en evidencia que la mayoría de la comunidad universitaria y la sociedad pide la paralización del proceso. Dinámicas de este estilo son propias de gobiernos autoritarios, no democráticos y regímenes dictatoriales. La participación en los referéndums por ejemplo en la UB fue del 18% mientras que las elecciones a rector de la misma universidad fue del 5.42%. Más de 15.000 estudiantes en las universidades de Barcelona pidieron la paralización del proceso del Plan Bolonia. ¿Quién es la minoría?

 

Después de las movilizaciones y manifestaciones del 13N, 20N, 12M, 18M, 26M, 28ª y 9 My, no se ha considerado la voz de la gente que se ha hecho escuchar durante todos estos años. El debate social lo hemos potenciado nosotras y ganado nosotras, pero debido al despotismo imperante de estas autoridades autodenominadas democráticas, no se da más alternativa que seguir adelante en la lucha.

 

Si protestar pacíficamente y querer crear un debate social abierto es un delito, somos culpables, y sí, somos unos antisistema cuando nos reafirmamos en que no descansaremos, en que reincidiremos hasta que no se aclare quién estará más cerca de Europa y bajo qué condiciones, hasta que no se pare la LOU y este cambio acelerado y desestructurado que nos envuelve, hasta que no haya un verdadero proceso participativo, hasta que la desinformación deje de constituir un elemento beneficioso y necesario, hasta que expulsiones, expedientes e imputaciones desaparezcan del conflicto universitario. Hoy, aquí en el Ministerio de Educación, avisamos a las autoridades políticas y académicas que el próximo curso vamos a luchar para defender un conocimiento libre, critico, que no se someta a la lógica empresarial, denunciaremos la precariedad, tanto dentro como fuera de la universidad, que implica toda esta restructuración. Porque no somos tontas y sabemos los intereses que hay detrás de la mal llamada convergencia europea, reincidiremos. La represión no nos cortará las alas. En Barcelona se está iniciando una campaña antirepresiva, los 58 i +, que pretende denunciar los métodos utilizados por parte del gobierno: si no entra por la imposición, entrará por la represión. Bolonia se impone a golpes de porra! Nosotras tenemos los argumentos y la solidaridad de la sociedad. Vosotros tenéis la maquinaria panfletaria de los medios de comunicación creadores de opinión y los mercenarios que os hacen la tarea difamatoria. A ver quien ganará la partida…


Contra la europa del Capital y la mercantilitzación de nuestras vidas!
No a Bolonia! No a la LOU! No a los reales decretos!
Contra la represión, acción directa! Contra Bolonia ni un paso atrás!
L’ONU AD HAITI: REPRESSIONE CONTRO STUDENTI E LAVORATORI

Il 4 giugno 2009 la Polizia Nazionale haitiana, coadiuvata dalle truppe ONU della missione MINUSTAH (Missions des Nationes Unies pour Stabilisation en Haïti), ha messo in scena una violenta repressione contro una manifestazione di studenti universitari scesi in piazza per chiedere la pubblicazione della “Legge dell’aumento salariale” adottata dal potere legislativo. Sul campo sono rimasti diversi feriti e fermati; un manifestante è stato raggiunto alla testa da uno sparo.

 

Gli studenti stanno protestando ormai da mesi, unendosi ai lavoratori in lotta, per ottenere da René Preval, presidente di Haiti, la promulgazione della “Legge dell’aumento salariale”, adottata dopo più di due anni di discussioni dai due rami del parlamento nazionale. Senza l’intervento presidenziale, la legge rimane però lettera morta, dal momento che affinché entri in vigore c’è bisogno della pubblicazione sulla gazzetta ufficiale.

Studenti e lavoratori hanno manifestato più volte in questi mesi, andando incontro sempre ad una dura repressione, per esigere l’adozione definitiva di un provvedimento essenziale per la stessa sopravvivenza di numerosi settori della popolazione, in particolare dei lavoratori industriali. Il loro stipendio è infatti fermo ai livelli del 2003, mentre al contempo un’inflazione galoppante (che ha toccato soprattutto combustibili e prodotti alimentari) ha ridotto notevolmente il potere d’acquisto dei lavoratori. La retribuzione giornaliera degli operai dell’industria è in media di 70 gourdes (moneta locale) al giorno, l’equivalente di 1.70 dollari. Si calcola che solo per recuperare il potere d’acquisto perso a partire dal 2007 (da quando cioè l’inflazione ha raggiunto livelli altissimi) la paga giornaliera dovrebbe aggirarsi intorno ai 550-600 gourdes. Di fronte ad una situazione drammatica, la “Legge dell’aumento dei salari” prevede aumenti di circa 200 gourdes, ma è evidente che presidente ed industriali non sono disposti a concedere nemmeno questo.

Le organizzazioni imprenditoriali, in particolare quelle riunite nella ADIH (Association des Industries d’Haïti) hanno montato una campagna mediatica contro questa legge, minacciando di licenziare il 50% dei 25000 lavoratori che ad oggi impiegano.

La presenza di forze internazionali sul territorio li aiuta nell’opera di repressione di qualsiasi manifestazione di dissenso. E così già il 1 maggio ai manifestanti le forze di polizia hanno impedito di giungere di fronte al Palazzo Nazionale nella piazza centrale della capitale. Il bilancio fu allora di 70 feriti ospedalizzati e di numerosi altri manifestanti colpiti dalle forze della repressione (già prima del corteo era evidente la volontà del governo di impedire la protesta). Ancora, tra maggio e giugno forze di polizia locali e soldati della missione ONU hanno represso numerose manifestazioni studentesche, arrivando a penetrare nel perimetro della Facoltà di Medicina, contravvenendo così pure la carta costituzionale haitiana.

Da tempo ad Haiti i caschi blu dell’ONU operano senza alcun previo permesso da parte delle autorità locali disimpegnandosi in lavori “sporchi” che nella maggior parte dei casi non balzano nemmeno all’onore delle cronache. Carta stampata e televisioni sono “costretti” a parlarne solo quando di mezzo ci sono massacri o casi assolutamente particolari. Altrimenti rimane tutto coperto dal cosiddetto “segreto operativo”.

Il “modus agendi” del contingente MINUSTAH mostra una volta di più quale sia il ruolo che le missioni ONU svolgono nei più disparati angoli del pianeta. Che si tratti di Libano, ex Jugoslavia o Haiti, appare con sempre maggiore evidenza che adempiono la funzione di prevenire e/o reprimere movimenti, gruppi ed organizzazioni che cercano di opporsi alla pax democratica così “generosamente” offerta/imposta dalla cosiddetta comunità internazionale.
 

 
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