Boycott Israel: parlano i docenti israeliani
22 Settembre 2009
Di seguito la traduzione di due articoli riguardanti la campagna Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni verso Israele. Il primo è apparso sul Los Angeles Times del 20 agosto 2009. L’autore è Neve Gordon, professore all’università Ben Gurion. Dopo aver dichiarato pubblicamente l’appoggio alla campagna BDS è stato criticato, o meglio criminalizzato, da alcune delle più importanti cariche istituzionali israeliane (l’università Ben Gurion è una di quelle con la quale l’Università Orientale di Napoli ha sottoscritto una convenzione).
Il secondo articolo è più propriamente sul boicottaggio accademico e sulle sue ragioni. L’autrice, Anat Matar, è professoressa all’università di Tel Aviv.
Il secondo articolo è più propriamente sul boicottaggio accademico e sulle sue ragioni. L’autrice, Anat Matar, è professoressa all’università di Tel Aviv.
traduzioni a cura del Collettivo Autorganizzato Universitario
Boycott Israel
di Neve Gordon, 20 agosto 2009
Neve Gordon insegna Scienze Politiche all’Università Ben Gurion, in Israele. Dopo la pubblicazione di quest’articolo sul Los Angeles Times è stato messo sotto accusa da parte delle autorità israeliane. Il Rettore dell’università, Rivka Carmi, ha dichiarato: “Disapproviamo la visione disastrosa di Gordon e rifiutiamo il suo cinico sfruttamento della libertà di parola in Israele e nell’università.”. Il Ministro dell’Educazione, Gideon Sa’ar, ha definito l’articolo di Gordon “ripugnante e deplorevole”. Infine, il Ministro per gli Affari Religiosi, Ya’akov Margi, ha chiesto all’università di sospendere immediatamente Gordon dal suo impiego e di condannare pubblicamente l’articolo.
tratto da: http://www.counterpunch.org/
Quest’estate i giornali israeliani sono pieni di articoli furiosi contro la spinta per un boicottaggio internazionale di Israele. Sono stati ritirati film dai festival cinematografici israeliani, Leonard Cohen è sotto attacco in tutto il mondo per la sua decisione di esibirsi a Tel Aviv, l’Oxfam1 ha reciso i legami con una celebre portavoce, un’attrice britannica che pubblicizza anche cosmetici prodotti nei territori occupati. Chiaramente, la campagna per usare la stessa stregua di tattiche che ha aiutato a metter fine alla pratica dell’apartheid in Sud Africa sta guadagnando molti sostenitori in tutto il mondo. Non a sorpresa, molti israeliani – anche pacifisti – non la approvano. Un boicottaggio globale inevitabilmente porta con sé accuse – per quanto capziose – di antisemitismo. Inoltre, porta con sé la questione del doppio standard (perché non boicottare la Cina per le sue famigerate violazioni dei diritti umani?) e la posizione apparentemente contraddittoria di approvare un boicottaggio della propria nazione.
Per me, in quanto cittadino israeliano, non è quindi facile fare appello a governi stranieri, autorità regionali, movimenti sociali internazionali, organizzazioni religiose, sindacati e cittadini affinché sospendano la cooperazione con Israele. Ma oggi, mentre guardo i miei due ragazzi giocare nel giardino, sono convinto che è l’unica strada attraverso cui Israele si può salvare da se stesso.
Dico ciò perché Israele ha raggiunto un crocevia storico, e i tempi della crisi richiedono misure drammatiche. Dico ciò come ebreo che ha scelto di crescere i propri figli in Israele, che è stato membro del campo pacifista israeliano per quasi trent’anni e che è profondamente in ansia per il futuro del paese.
Il modo più giusto per descrivere Israele oggi è come uno stato di apartheid. Per più di 42 anni, Israele ha controllato la terra tra la Valle del Giordano e il Mar Mediterraneo. All’interno di questa regione risiedono circa 6 milioni di ebrei e quasi 5 milioni di palestinesi. Oltre a questa popolazione, 3,5 milioni di palestinesi e quasi mezzo milione di ebrei vivono nelle aree occupate da Israele nel 1967, e mentre questi due gruppi vivono nella stessa area, sono soggetti a sistemi legali completamente diversi. I palestinesi sono senza stato e mancano di molti dei diritti umani più basilari. Per contrasto, tutti gli ebrei – sia che vivano nei territori occupati che in Israele – sono cittadini dello stato di Israele.
La questione che mi attanaglia di notte, come genitore e come cittadino, è come assicurare che i miei due figli e i figli dei miei vicini palestinesi non crescano in un regime di apartheid.
Ci sono solo due vie morali per raggiungere quest’obiettivo.
La prima è la soluzione dello stato unico: offrire la cittadinanza a tutti i palestinesi e creare così una democrazia bi-nazionale all’interno di tutta l’area controllata da Israele. A causa della demografia, ciò potrebbe equivalere alla fine di Israele come stato ebraico; per molti ebrei israeliani, un anatema.
Il secondo mezzo per metter fine al nostro apartheid è attraverso la soluzione dei due stati, che comporta il ritiro israeliano ai confini pre-1967 (con possibili scambi di terra uno ad uno), la divisione di Gerusalemme, ed il riconoscimento del diritto al ritorno per i palestinesi con l’accordo che solo un numero limitato dei 4,5 milioni di rifugiati palestinesi potrebbe ritornare in Israele, mentre il resto potrebbe tornare nel nuovo stato palestinese.
Geograficamente, la soluzione dello stato unico appare molto più attuabile poiché ebrei e palestinesi sono ormai completamente avviluppati; quindi, “sul terreno”, la soluzione dello stato unico (in una manifestazione di apartheid) è una realtà.
Ideologicamente, la soluzione dei due stati è più realistica perché meno dell’1 per cento degli ebrei e solo una minoranza dei palestinesi appoggia il binazionalismo. Per ora, malgrado le difficoltà concrete, appare più sensato alterare la realtà geografica che quella ideologica. Se in futuro i due popoli decideranno di condividere uno stato, potranno farlo, ma al momento non è ciò che desiderano.
Se quindi la soluzione dei due stati è la via per fermare lo stato di apartheid, come si può raggiungere quest’obiettivo?
Sono convinto che la pressione esterna è la sola risposta. Negli ultimi tre decenni, i coloni ebrei nei territori occupati sono drammaticamente aumentati di numero. Il mito della Gerusalemme unita ha condotto alla creazione di una città dell’apartheid in cui i palestinesi non sono cittadini e mancano dei servizi di base. Il campo pacifista israeliano si è gradualmente rimpicciolito così che oggi è quasi inesistente, e la politica israeliana si sta spostando sempre più verso l’estrema destra.
A mio parere è perciò chiaro che l’unica strada per contrastare il trend dell’apartheid in Israele è attraverso un’enorme pressione internazionale. Le parole e le condanne dell’amministrazione Obama e dell’Unione Europea non hanno portato risultati, neanche ad un congelamento degli insediamenti, lasciando solo la decisione di ritirarsi dai territori occupati.
Di conseguenza ho deciso di appoggiare il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, lanciato dagli attivisti palestinesi nel luglio del 2005 e che da allora ha raccolto un largo sostegno in tutto il globo. L’obiettivo è assicurare che Israele rispetti i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale e garantire ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione.
A Bilbao, in Spagna, nel 2008, una coalizione di organizzazioni provenienti da tutto il mondo ha elaborato i 10 punti della campagna Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, per esercitare pressioni su Israele in “un modo graduale e sostenibile, sensibile al contesto ed alla funzione”. Per esempio, lo sforzo comincia con sanzioni su e disinvestimento da ditte israeliane che operano nei territori occupati, ed è seguito da azioni contro coloro i quali aiutano a sostenere e rafforzare l’occupazione in maniera visibile. Su queste linee, gli artisti che giungono in Israele per porre l’attenzione sull’occupazione sono i benvenuti, mentre quelli che vogliono solo esibirsi non lo sono.
Null’altro ha funzionato. Esercitare un’enorme pressione internazionale su Israele è l’unico modo per garantire che le prossime generazioni di israeliani e palestinesi – inclusi i miei due ragazzi – non crescano in un regime di apartheid.
[1] L’Oxfam è una confederazione di 13 organizzazioni non governative.
Gli accademici israeliani devono pagare un prezzo se si vuol porre termine all’occupazione
di Anat Matar, 27 agosto 2009
di Anat Matar, 27 agosto 2009
tratto da: http://www.pacbi.org/
Alcuni giorni fa, il Dr. Neve Gordon dell’Università Ben Gurion del Negev ha pubblicato un editoriale sul Los Angeles Times. In quell’articolo spiegava perché, dopo anni di attività nel campo pacifista, ha deciso di riporre le proprie speranze sull’esercizio di pressioni esterne su Israele – incluse sanzioni, disinvestimento ed un boicottaggio economico, culturale ed accademico.
Egli crede, e così anch’io, che solo quando i ceti abbienti della società israeliana pagheranno un prezzo reale per l’occupazione, faranno genuini passi in avanti per mettervi fine.
Gordon guarda la società israeliana e vede uno stato dell’apartheid. Mentre le condizioni di vita dei palestinesi si deteriorano, molti israeliani stanno traendo benefici dall’occupazione. Tra i due estremi, la società israeliana sta affondando in un completo rifiuto-ritiro in un odio estremo e nella violenza.
La comunità accademica gioca un importante ruolo in questo processo. Eppure, invece di suonare l’allarme, si sveglia solo quando qualcuno osa rivolgersi alla comunità internazionale e chiedere disperatamente aiuto.
Lo slogan ormai logoro che ognuno recita in questo contesto è quello della “libertà accademica”, ma è tempo che qualcosa rompa questo mito.
L’appello alla libertà accademica nacque durante l’Illuminismo, quando i poteri dominanti cercavano di sopprimere i pensatori dotati di un pensiero indipendente. Già allora, più di 200 anni fa, Immanuel Kant distingueva tra gli accademici le cui competenze (legge, teologia e medicina) servivano la classe dirigente e quelli che non avevano né il potere né gli erano vicini. Per i primi, egli afferma, non ha senso parlare di “libertà” o di “pensiero indipendente” dal momento che qualsiasi uso di una simile terminologia è cinico.
Da allora, il cinismo si è diffuso ad altre competenze. Nel migliore dei casi la libertà accademica era considerata come il diritto a porre questioni problematiche. Nel peggiore come il diritto di attaccare chiunque ponga troppe questioni.
Quando si innalza la bandiera della libertà accademica, è l’oppressore e non l’oppresso che solitamente la sventola. Qual è questa libertà accademica che interessa così tanto la comunità accademica in Israele? Quando ha mostrato, per esempio, preoccupazione per lo stato della libertà accademica nei territori occupati?
Quest’anno scolastico si aprirà a Gaza in aule distrutte visto che non ci sono materiali di costruzione per ricostruire dalle rovine; senza quaderni, libri e materiale per scrivere, che non possono essere acquistati a Gaza a causa dell’embargo (esatto, Israele può boicottare le scuole e non si è udito nessun pianto!).
Migliaia di studenti nelle università della West Bank sono in arresto o detenuti nelle carceri israeliane, di solito perché appartenenti ad organizzazioni studentesche che non piacciono alla classe dirigente.
Gli ostacoli e le barriere di separazione impediscono a studenti e professori di raggiungere le lezioni, le biblioteche e gli esami. Partecipare a conferenze all’estero è quasi impensabile e l’ingresso di esperti che abbiano passaporti stranieri è permesso solo di rado.
D’altro lato, membri dell’accademia israeliana fedelmente difendono il loro diritto a ricercare ciò che il regime si aspetta che loro ricerchino e che è deciso da ex ufficiali militari in posizioni universitarie. L’università di Tel Aviv è orgogliosa di sé stessa per il fatto che il Ministero della Difesa sta finanziando 55 dei suoi progetti di ricerca e perché il DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency – Agenzia della Difesa per Progetti di Ricerca Avanzata) del Dipartimento della Difesa statunitense, ne sta finanziando altri nove. Tutte le università offrono programmi di studio speciali per la Difesa.
Quei programmi hanno dovuto far fronte a qualche protesta? A differenza dell’impressione solitamente accolta, solo pochi docenti parlano decisamente contro l’occupazione ed i suoi effetti, e contro la natura sempre più bestiale dello stato di Israele.
La grande maggioranza è indifferente alla propria libertà fino al momento in cui non esca fuori qualcuno che chiede aiuto alla comunità internazionale. A quel punto si levano voci da destra e da sinistra, l’indifferenza scompare, sostituita dalla violenza: boicottare le università israeliane? Ma questi sono attacchi alla cosa più sacra tra le sacre, la libertà accademica!
*l’autrice è professoressa presso il Dipartimento di Filosofia dell’università di Tel Aviv
Categorie:palestina, scuola e università