In un panorama politico e culturale reazionario, in un clima soffocante, cattolico e bigotto, dove trionfa la paura e l’odio verso il diverso, dove coesistono lo schiavismo e l’ipermodernità dello sfruttamento e del consumo, dove l’unica alternativa è fra rassegnazione e emigrazione, qualche segnale di resistenza e di speranza viene dalle lotte dei lavoratori, dai comitati territoriali contro la devastazione ambientale e le “grandi opere”, dalle assemblee antifasciste e dai collettivi universitari.
Come compagni che agiscono all’interno dell’università abbiamo sempre lavorato affinché queste lotte si collegassero, perché i lavoratori, i disoccupati, gli studenti, tutti quelli a cui vengono negati tutele e servizi sociali, si autorganizzassero, e cercassero di conquistare spazi di agibilità e vittorie concrete al di là di ogni mediazione istituzionale, contro le logiche di profitto, il clientelismo e la repressione poliziesca e fascista che provano a schiacciare qualsiasi opposizione determinata.
Facile a dirsi… Ma queste non sono solo parole: sono macigni, che dobbiamo quotidianamente affrontare e riaffrontare. Si tratta allora, dopo un anno e mezzo di vita del nostro collettivo, di tornare ad alcune domande che sono alla base della nostra azione, di dare conto del senso del nostro lavoro a partire dall’esperienza concreta. Si tratta di capire perché fare politica all’università, e quindi cos’è e com’è fatta l’università oggi, e infine in che modo, partendo da questo luogo, si può contribuire a spostare gli assetti della nostra società.
Di certo non faremo nessuna scoperta, forse diremo delle banalità. Ma socializzare queste riflessioni e queste esperienze potrebbe servire a tanti singoli e collettivi, a tanti compagni che vogliono cambiare le cose ma si sentono anche soli e incerti sulla via, per avviare una riflessione comune e cercare così di ricostruire reti di solidarietà e di lotta più larghe, più coscienti e più determinate.
PERCHÉ FARE POLITICA ALL’UNIVERSITÀ?
Non è un caso che ogni movimento sociale che abbia scosso l’Italia negli ultimi quarant’anni sia partito o abbia profondamente coinvolto le università. L’evoluzione del capitalismo, la sua necessità di fare profitto e contemporaneamente di rispondere alle lotte operaie, con la conseguente transizione (per quanto mai perfettamente compiuta) al terziario, ha richiesto fra gli anni ’60 e ’80 la creazione di un personale sempre più qualificato e variegato, e una parziale redistribuzione del reddito verso le classi subalterne. Fra le conseguenze di questo gigantesco processo c’è stato l’allargamento smisurato della componente studentesca all’interno della società. Essere giovani ed essere studenti sono diventati sempre di più sinonimi, almeno nelle concentrazioni metropolitane, in Italia quanto mai determinanti per incidere politicamente.
Sin da subito l’università diventa un terreno centrale per i movimenti di opposizione. Fra il ’68 e il ’78 vi si rovescia una nuova generazione, anche proletaria, che fa degli atenei fino a poco prima blindati dalla borghesia un luogo di scambio di esperienze e conoscenze, un luogo critico. Una generazione estranea alla mediazione dei partiti e dei sindacati della sinistra, che però da quei partiti e da quei sindacati riprende l’aspirazione originaria alla rivoluzione, e tenta di interpretarla insieme ai nuovi antagonismi di fabbrica, alle lotte di genere o a quelle dei comitati di quartiere.
Anche con la fine di quella stagione di lotta la parziale coincidenza fra giovani e studenti, che abbina il desiderio di cambiamento alla circolazione di idee critiche, non viene meno. Fra gli anni ’80 e ’90 si registra un sostanziale aumento della popolazione studentesca, ed è proprio dalle università che parte, con la Pantera, il primo movimento di massa dopo gli “anni di piombo” e dopo Berlino. Un movimento che forma tanti compagni e permette la creazione di centri sociali, di una nuova ventata politica e culturale che sarà alla base delle lotte degli anni ’90 e di quelle contro la globalizzazione neoliberista.
Anche nel 2005 e nel 2008, dopo la sconfitta del movimento No Global e del movimento pacifista, nell’appiattimento del panorama politico che vede una destra sempre più aggressiva e un centrosinistra sempre più patetico, l’Università riesce a mostrare il suo potenziale conflittuale. L’Onda, nonostante tutti i suoi limiti, indica, con i suoi numeri imponenti, l’impossibilità di eliminare il dissenso, la voglia di organizzarsi fuori da partiti e sindacati ormai del tutto screditati e la ricettività dello studente universitario rispetto ai discorsi più alternativi.
Questo schizzo forse un po’ troppo rapido indica la centralità dell’università per un lavoro politico che miri alla trasformazione dell’esistente. Non perché essa sia diventato il luogo produttivo per eccellenza di un supposto “capitalismo cognitivo”, né perché in essa si concentri una classe omogenea di sfruttati. Ma “semplicemente” perché, se l’università è “luogo della formazione” per il capitale, può anche essere luogo di formazione per le lotte.
Come e più della scuola superiore, è uno spazio di confronto, di scambio di idee; uno spazio frequentato da giovani, cioè persone che stanno costruendo il proprio destino, e forse hanno tempo e voglia per riflettere e per lottare prima che la rassegnazione, gli impegni di lavoro e di vita li sprofondino nell’individualismo… Giovani, che già fanno le prime esperienze di lavoro, e riescono ancora ad indignarsi e a incazzarsi per il trattamento che gli tocca subire, giovani che scoprono, anche solo nella vita di studenti, quanto sono socialmente ingiuste la burocrazia, le raccomandazioni, la mancanza di borse di studio, di mense, studentati e servizi, e quanto costa fare la spesa…
Già qui si capisce come mettere su un collettivo all’università non sia un rituale, un modo, per quanto importante, di stare insieme, di fare aggregazione e feste, ma è l’occasione per formarsi come individuo critico, di partecipare ad un’esperienza di lotta in comune con altri, che farà rimanere una fiamma accesa anche dopo, quando saremo sfruttati sul posto di lavoro, o quando vedremo un’ingiustizia e vorremmo organizzarci per combatterla…
Ma per riuscire ad assolvere pienamente questa funzione e porre le basi di un movimento che investa tutta la società e che soprattutto rimanga nel tempo, bisogna capire bene come agire dentro l’università. E per farlo bisogna provare a comprendere qual è il ruolo che l’istituzione universitaria ricopre oggi all’interno della società.
COS’È E COM’È FATTA L’UNIVERSITÀ OGGI?
I toni trionfalistici delle brochure pubblicitarie delle varie università italiane presentano un’immagine che non corrisponde per niente alla realtà. Non solo l’università di oggi non ha niente a che vedere con il “dotare gli studenti di una cultura ampia e critica” (e come potrebbe essere altrimenti, visto che è un’istituzione che serve innanzitutto a riprodurre le idee dominanti che sono sempre quelle della classe dominante?); paradossalmente non ha nemmeno molto a che vedere con il “formare la classe dirigente” o con il “tracciare percorsi di connessione” fra il mondo della ricerca e del lavoro…
In questo senso l’università italiana è il prodotto del capitalismo italiano, che ha dei caratteri peculiari rispetto ai paesi del Nord-Europa. Come il capitalismo nostrano è statalista, sprecone, non-competitivo, beceramente criminale, e privilegia la raccomandazione e il “diritto di nascita” al posto del merito, così la nostra università è baronale, sprecona, spesso al limite del criminale, del tutto non-competitiva… Come il capitalismo italiano vede alcune zone altamente integrate nel tessuto produttivo europeo e per il resto mafie, lavoro nero, servitù al limite del feudalesimo, così l’università italiana è fatta di alcuni poli di eccellenza e tanto precariato, favori personali, e persino ius primae noctis!
Come nel capitalismo nostrano, c’è dunque una grande differenza fra i “centri”, principalmente concentrati al Nord, dove davvero si tira su la classe dirigente, o si disciplinano a bacchetta i futuri tecnici, sfruttandoli da subito sotto la copertura dello stage, e la “periferia”, principalmente meridionale, dove la gran parte di studenti, dottorandi e ricercatori sono abbandonati a loro stessi, i rapporti con il privato sono gestiti su base clientelare, le regole sono del tutto arbitrarie. Questo non vuol dire che in Italia il capitalismo sia meno crudele, anzi. Ci sono più contraddizioni e meno vie di fuga, una polarizzazione di classe più marcata e meno margini per un’azione riformista…
In particolare con l’avvio del Processo di Bologna la soluzione proposta da centrodestra e centrosinistra è stata quella della “modernizzazione liberale”, ovvero della privatizzazione, della svendita del patrimonio pubblico, della precarizzazione dei contratti… Non ci voleva la Corte dei Conti [1] per sapere che queste, come altre riforme [2], sono state dei fallimenti totali e non poteva essere altrimenti. Proliferazione di corsi, master e cattedre per rendersi appetibili e distribuire favori, svendita dei crediti a corporazioni di ogni tipo solo per fare cassa, gestione dell’università affidata al rettore-manager col compito di vendere bene la sua merce, e magari di ottenere l’etichetta di “eccellente” se si mostra particolarmente disposto alle sollecitazioni imprenditoriali o governative…
Così è in atto una dequalificazione su due fronti: dequalificazione dell’insegnamento e della ricerca universitaria, sempre più settorializzati e parcellizzati, e dequalificazione del titolo di studio, che nei fatti non serve più a nulla. I pochi corsi di laurea e master di specializzazione che consentono di trovare lavoro hanno prezzi inaccessibili, e sono il recinto di una borghesia che riproduce continuamente se stessa.
Nei fatti l’università italiana è oggi il luogo in cui migliaia di ragazzi e di ragazze transitano per qualche anno al fine di acquisire un titolo di studi, nel minor tempo possibile, col maggior “punteggio” possibile, per diventare più appetibili sul mercato del lavoro. Per chi non appartiene già all’élite, prendere una laurea vuole dire solo prendere uno dei tanti pezzi di carta per fare curriculum e non morire precari.
Pessimisti? No, realisti. L’università è solo un momento di passaggio che molti scelgono prima di confrontarsi con un mondo del lavoro sempre più spietato e incerto [3]. Ed il suo compito è, nel “migliore” dei casi, quello di fornire una merce-lavoratore che possa vendersi sul mercato già dotata delle competenze e della mentalità più utile e più facile da sfruttare.
CHE COSA FARE (E COME FARLO) DENTRO L’UNIVERSITÀ?
A partire da queste considerazioni possiamo rispondere più precisamente alle domande che ci ponevamo. Fare politica all’università vuol dire innanzitutto essere nel luogo in cui si formano i futuri lavoratori (dai call-center, al settore impiegatizio, all’amministrazione, ai ruoli di second’ordine nelle aziende). Se, fin dal percorso formativo, siamo sistematicamente sottoposti ad un continuo meccanismo di disciplinamento sia da un punto di vista formale (spazi e tempi dell’apprendimento e dello studio) che sostanziale (modalità di apprendimento e quantificazione), se dobbiamo introiettare la gerarchia e subire un controllo, se ci viene insegnato che l’autorità è “amica”, basta “saper chiedere”, allora opporsi a tutto ciò vuol dire lottare contro le stesse logiche che incontriamo e incontreremo sui luoghi di lavoro.
Se la didattica viene sottomessa alle esigenze della classe dominante, se viene persino modellata su quelle che sono le linee e le scelte del Governo, se il revisionismo deve trovare nell’università il marchio di ufficialità, opporsi vorrà dire coltivare un’autonomia di pensiero, elaborare un altro immaginario, non limitarci a quello che ci raccontano…
Il volgare profitto infatti ha sempre bisogno di rivestirsi di un nobile discorso. Sono i docenti universitari i primi a elaborare teorie su “esportazione della democrazia”, “importanza dell’ONU”, “pericolo terrorista”, a fornire gli strumenti retorici e i dispositivi pratici per governare… Ribellarsi a tutto questo vuol dire costruire sin da subito una società alternativa, dare una progettualità al nostro dissenso.
Una volta evidenziata la contraddizione centrale e smascherato il volto di “istituzione neutrale”, cosi come quello di “valore della cultura”, sappiamo forse che fare, cosa andare a colpire. Ma come farlo?
Qui l’azione politica non può dissociarsi da quelli che sono i bisogni reali degli studenti. Bisogna cercare di coprire un livello vertenziale: per dimostrare che le cose si possono cambiare, per cercare di essere rappresentativi, per coinvolgere nella lotta quanti più studenti è possibile. Bisogna cercare di avere spazi, tempi (aule occupate, esenzioni dalle firme obbligatorie, appelli…), un effettivo funzionamento dei servizi (mense, biblioteche, borse di studio), il calmieramento delle tasse… Rivendicare insomma un vero diritto allo studio: un’università che sia accessibile a tutti e sia allo stesso tempo di qualità.
Ma impostare una battaglia rispetto al sistema dei crediti, svelandone i limiti sia nella forma che nella sostanza, rivendicare la libera circolazione dei materiali di studio (libri, riviste scientifiche), richiedere una gestione e razionalizzazione degli spazi fisici e non dell’università a favore degli studenti o l’abolizione degli stage, non sono battaglie che estinguono la propria forza nella “vertenza in sé”. Ed è proprio questo il nodo cruciale: intervenire nelle varie sfere del diritto allo studio non significa fare una battaglia tradunionista, ma far cogliere quegli elementi politici che facciano acquisire maggiore coscienza agli studenti.
Per questo bisogna provare a incidere direttamente nella formazione, contestando i professori, i politici, gli intellettuali che vengono in aula a propagandare le loro menzogne; organizzando seminari e incontri che leghino l’università a quello che avviene al di fuori della mura, aprendola all’esterno. Così, parlare delle contraddizioni che si articolano nella società, parlare di antifascismo, popoli oppressi, recupero della memoria storica, gestione criminale dell’immigrazione, provare forme di autorganizzazione e di sperimentazione dal basso significa tentare sin da subito di rovesciare i rapporti di forza almeno nei luoghi dove noi siamo presenti.
È chiaro che tutto questo non può essere efficace se fatto in una sola facoltà, ma ha bisogno di un respiro nazionale; e siccome queste riforme sono lanciate a livello europeo, bisogna avere persino uno sguardo e dei contatti internazionali. Per avviare e far funzionare queste reti anche per le battaglie che ci attendono su questioni chiave come il lavoro, la guerra, l’immigrazione, la devastazione del pianeta.
Perché l’università non è un’isola felice in mezzo ad un mare di contraddizioni: riproduce, sistematizza e dà una veste teorica a quelle logiche che garantiscono la sopravvivenza dei rapporti capitalistici. E quindi, senza alcuna velleità o volontà riformista di voler “contaminare” l’istituzione universitaria, di prendere parte ad un processo di riforma in senso democratico della governance per la “cogestione” di una struttura per sua essenza subordinata, possiamo concludere che il nostro ruolo è quello di portare e interpretare il conflitto, di individuare e agire le linee di forza della rivoluzione che viene.
[1] Cfr. il recente articolo su Repubblica: http://www.repubblica.it/scuola/2010/04/19/news/corte_dei_conti_laurea_breve_da_bocciare-3466433/
[2] Si pensi a ferrovie, autostrade, linee telefoniche, acquedotti, patrimonio immobiliare pubblico etc: privatizzate dopo la fine del “socialismo reale” in nome della competitività e dell’efficienza del servizio, hanno portato alla precarizzazione dei contratti, a maggiori incidenti sul lavoro, all’aumento delle tariffe ed a vere e proprie speculazioni da parte di nuovi manager strapagati che si muovono peraltro in regime di monopolio…
[3] Qualche dato sui tassi di disoccupazione ad un anno dalla laurea: http://miojob.repubblica.it/notizie-e-servizi/dossier/dettaglio/la-paga-dei-laureati/3709945